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I due lati della medaglia

Il rivalutato Gattuso ha battuto nel risultato finale e nel gioco Sarri e le sue asperità umorali

 

 

La storica e meritatissima vittoria del Napoli in Coppa Italia, nella finale contro la Juventus, suggerisce principalmente due argomenti principali, ossia i due allenatori delle squadre finaliste ed il loro momento completamente opposto.

In primis questa finale ci dice che Rino Gattuso è un allenatore vero, completo, con un percorso professionale compiuto e riconosciuto. Gattuso è subentrato in corsa in questa stagione in una situazione di distacco empatico ed emotivo molto forte fra società, squadra ed ambiente. Ha iniziato a lavorare sul gruppo come un monaco certosino, cementando spirito di squadra, senso del sacrificio e valori. Ha creato così un Napoli simile a lui nel carattere, ma con un gioco chiaro, coerente, figlio del palleggio e del tentativo, persino eccessivo, di cercare sempre di giocare la palla da dietro. Non ha portato dichiarazioni roboanti, né ha preferito alzare i toni spostando il mirino della critica su altre zone rosse. Gattuso, da sempre, le responsabilità se le sa prendere e se le vuole prendere. Una lezione questa per i tanti odiatori in servizio permanente fra i tifosi milanisti che, nel suo ultimo anno di gestione tecnica, lo avevano eletto a capro espiatorio di una presunta mancanza di risultati della squadra, arrivando persino a storpiarne il nome. Il suo Milan è arrivato ad un punto dal terzo posto, è rimasto fuori dalla Champions League per un’inezia ed un anno dopo, pur rinforzato, si ritrova a inseguire i preliminari di Europa League. Il tempo, con Gattuso, è stato galantuomo. Troppo comodo, a volte, per molti odiatori ciechi, rifugiarsi nella ricerca del colpevole unico, come se uno sport collettivo come il calcio potesse essere valutato esclusivamente su basi individuali. I fatti, non le chiacchiere, hanno invece dimostrato che Rino Gattuso ha vinto il suo primo trofeo da allenatore eliminando con merito Lazio, Inter e Juventus, ossia le prime tre squadre della Serie A. Lo ha fatto a 42 anni, un’età in cui Lippi, Capello, Allegri ed Ancelotti non avevano ancora vinto nulla. Chiaramente gli allenatori sono sempre discutibili (per fortuna), perché il modo di vedere il calcio sarà sempre soggetto a discussioni e a rilievi; è il bello del gioco d’altronde e se avessimo tutti le stesse opinioni sui tecnici moriremmo di noia. Opinioni però, non di certo offese personali, invettive inutili, indici colpevolisti puntati contro, come se un allenatore fosse un mago con la bacchetta magica. Vale per le crociate contro gli allenatori, così come vale anche per le crociate contro i singoli giocatori. Nel calcio esistono soltanto verità relative e fatti incontestabili. Le verità assolute non fanno parte di quest’universo.

L’altro lato della medaglia ci consegna invece un Maurizio Sarri che è salito alla ribalta delle cronache negli ultimi anni come erede assoluto di Arrigo Sacchi ma che, del Vate di Fusignano, non pare aver preso troppo cose in riferimento al fair play, vero e proprio pallino assoluto dell’ex allenatore del Milan. L’aver trattato il Milan di Pioli come una provinciale qualsiasi che la Juventus ha avuto quasi il fastidio di dover affrontare, non è stato particolarmente elegante, anche se in linea perfetta con lo stile comunicativo del personaggio. Dichiarare che col Milan “la sua Juventus non ha forzato perché non ce n’era bisogno” è un postulato di ineleganza, totalmente avvolto da una patina di antisportività manifesta. Ed in più è un’offesa verso la verità del campo, che ha visto un Milan superiore alla Juventus nella partita di andata, punito soltanto dalla propria imprecisione e da un rigore discutibile. Un Milan che, nella gara di ritorno, pur in inferiorità numerica, non ha permesso alla Juventus di segnare, tenendo in bilico la qualificazione sino alla fine. Sarri, professionista impeccabile sul campo, non è la prima volta che si lascia andare ad un modo di comunicare che va oltre le leggi dello sport e che finisce per offendere il senso dello sport stesso. Lo ha fatto evidentemente anche dopo la finale di Coppa Italia, quando il Napoli festeggiava il meritato trofeo e l’ex tecnico dell’Empoli ha ben pensato di cavarsela con una frase infelice “hanno solo battuto i rigori meglio di noi”. Il tutto come se la superiorità del Napoli sulla Juventus nei 90 minuti di gioco non fosse stata manifesta sul piano delle occasioni da gol e come se Buffon non fosse stato per distacco il migliore in campo della formazione bianconera. Non basta pensare calcio allo stesso modo per essere l’erede di Sacchi. Sarri è troppo distante da un certo stile comunicativo per essere associabile in maniera automatica a Sacchi il quale, pur avendo perso ai rigori la finale di Coppa del mondo col Brasile, ha sempre avuto l’onestà intellettuale di ammettere che la squadra carioca aveva meritato perché aveva giocato meglio della sua Italia. Non si aggrappò ai rigori tirati meglio, a Baggio infortunato, alla squalifica di Costacurta. Rese onore all’avversario nel momento della sconfitta più brutta per un allenatore professionista. Abissale quindi la differenza fra i due. Talebano, ai limiti della follia utopistica, Arrigo Sacchi. Opportunista, ai limiti del buongusto, Maurizio Sarri. D’altronde si può avere una visione del gioco comune, ma si può appartenere a scuole di pensiero diverse in merito al concetto di fair play. Sarri tuttavia, negli ultimi anni, ha un tantino esagerato.

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