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Lo scudetto di nessuno

 

Fu il primo scandalo del calcio italiano. Un giallo con un finale a sorpresa con troppi colpevoli

 

Doveva essere una stagione storica, e a suo modo lo fu. Il campionato di calcio che cominciò il 3 ottobre 1926 doveva essere celebrato come il primo a carattere nazionale, l’anticamera del girone unico. Dove­va essere ricordato come il campionato degli stadi monumentali (l’iperbole allora andava parecchio di moda): il Filadelfia di Torino, il San Siro di Milano e il più maestoso di tutti, il Littoriale di Bologna. Doveva essere la vetrina più luccicante per ma­gnificare, agli occhi dell’italiano medio, le gesta del regime: anche il calcio, da quel momento, avrebbe indossato la camicia nera. Una stagione storica, appunto. E in effetti lo fu, ma per tutt’altro motivo: il primo campionato della nuova era sarebbe stato, nell’ultracentenaria storia del calcio in Italia, l’unico a chiudersi senza aver designato una squadra campione. «Stagione 1926-27: Torino (revocato)», dicono così, ancora oggi, gli almanacchi. Questa è la storia dell’unico scudetto rimasto senza un vincitore.

Il 1926, per l’Italia del pallone, è l’anno della riforma. Una riforma finalmente capace di dare una struttura nazionale a un campionato ancora organizzato sulla base di raggruppamenti regionali e di due leghe che trova un brillante interprete in Leandro Arpinati, il nuovo presidente della Federcalcio. Fascista della prima ora, il romagnolo Arpinati nel ’26 è un uomo in vertiginosa ascesa: podestà di Bologna, segretario della Federazione provinciale, vice segretario del Partito, deputato alla Camera. Ma è anche un personaggio enigmatico, in grado di conciliare gli ideali anarchici e le cariche fasciste, l’amicizia con Mussolini e le spietate critiche che mai risparmierà al Duce e che segneranno la fine prematura della sua carriera politica.

Con l’elezione di Arpinati la Federcalcio si trasferisce a Bologna, nonostante le resistenze delle società e della stampa del Nord. Proteste che il nuovo presidente non si preoccupa di mettere a tacere. Al noto giornalista Renato Casalbore (il fondatore di Tuttosport) che porta avanti una furiosa campagna contro di lui, si limita a inviare un telegramma: «Letto suo articolo. Ha torto. Continui sua campagna. Rideremo prossimo incontro». Misteri dell’animo umano (o della storia): l’uomo che nel 1920 aveva condotto, pistole alla mano, un manipolo di camicie nere all’assalto di Palazzo d’Accursio, quando si trova ad occupare cariche pubbliche, dimostra in genere una liberalità sorprendente. Appena insediatosi nella nuova carica, nomina segretario Giuseppe Zanetti, uno dei massimi esperti di calcio in circolazione. Giocatore all’alba del secolo in Germania e in Svizzera, fondatore del Modena, ha un solo insuperabile difetto secondo i papaveri del Partito: non ha mai voluto prendere la tessera del PNF «Ma io non ho chiesto un fascista», fa sapere Arpinati. «Ho chiesto un competente e un galantuomo». Qualità che presto sarebbero state messe a dura prova. Arpinati e Zanetti si mettono al lavoro e a ottobre, finalmente, si parte.

Ma come si presenta la nuova creatura? Di sicuro più snella: delle 44 squadre che, disseminate tra leghe, gironi regionali, semifinali interregionali, finali di lega e finali nazionali, avevano affrontato il campionato precedente, ne restano 20, divise in due gironi da 10. Senza alcun criterio geografico. Al girone A sono iscritte Alba Roma, Brescia, Casale, Genoa, Hellas Verona, Inter, Juventus, Modena, Napoli e Pro Vercelli. Al girone B: Alessandria, Andrea Doria, Bologna, Cremonese, Fortitudo Roma, Livorno, Milan, Padova, Sampierdarenese e Torino. Le migliori tre di ogni raggruppamento si qualificano per la poule finale, che assegnerà il titolo. Squadre da battere: la Juventus, campione in carica, il Bologna, finalista l’anno precedente e il Torino. In seconda fila le milanesi e il Genoa. Pronostici rispettati: da una parte passano al girone finale Juve, Inter e Genoa; dall’altra Torino, Bologna e Milan.

I superstiti tornano in pista a marzo e dopo quattro giornate tutti hanno chiara la trama del film: se la giocheranno fino alla fine il Bologna di Schiavio, Della Valle e Muzzioli e il Torino del supertrio Baloncieri, Libonatti, Rossetti (44 gol in tre nella prima fase del torneo). Il 15 maggio è il gran giorno: le due regine di fronte al Filadelfia. Segna Libonatti all’inizio del secondo tempo, il Bologna barcolla, sbuffa, si riprende e assedia. Nel finale l’area del Toro è un fortino: Sosia, il portiere, arriva a far scudo col proprio corpo durante una furiosa mischia sulla linea di porta. «E’dentro», gridano i bolognesi. «Sarà, ma io non ho visto un bel nulla», indietreggia l’arbitro Pinasco, la faccia stra­volta di uno che non ci capisce più niente e vorrebbe solo riabbracciare i propri cari. 1-0, fini­sce così: Torino a 8 e Bologna a 6, raggiunto anche dalla Juventus.

Comincia il ritorno e il vantaggio granata aumenta, grazie a una vittoria esterna con l’Inter, mentre Juve e Bologna si neutra­lizzano nello scontro diretto. Ultima speranza di riaprire il torneo: il derby, che all’andata aveva vinto la Juve. Il conte Marone, presidente del Toro, stavolta ci tiene a fare bella figura e scommette una cena col “collega” Edoardo Agnelli. Arbitro della scommessa il Principe di Piemonte, nientemeno. Prima di partire per l’estero il signor conte si raccomanda: «Ci sono partite che bisogna vincere a tutti i costi. Questa è una di quelle». Ma nella vita, purtroppo, c’è sempre qualcuno che prende le cose alla lettera e Marone dovette rendersene conto in quella circostanza.

L’uomo del destino è un dirigente granata e si chiama Nani. Ci tiene da matti a dimostrare il suo zelo e stenta a credere alle sue orecchie quando tale Giovanni Gaudioso, studente catanese di ingegneria, gli sbatte sotto il naso la proposta indecente:
«Sono a pensione in piazza Madonna degli Angeli».
«Embè?».
«Conosco bene Allemandi, dorme lì anche lui. Volendo, si può trattare…».
Luigi Allemandi, aveva 24 anni, ed era uno dei più forti terzini in circolazione. Cresciuto nel Legnano come mezzala, era stato retrocesso in difesa per poter sfruttare al meglio la sua straripante potenza. Gianni Brera lo descriveva così: «Era una forza scatenata della natura. Portava la zazzera ricciuta e aveva del diavolo. I suoi spunti veloci impressionavano come i suoi balzi acrobatici. Entrava primo sull’avversario lanciato al goal ed erano veri sfracelli».

Alla Juve l’aveva portato Virginio Rosetta, che si era preso la briga di andarlo a vedere di persona. Combi, Rosetta, Allemandi: l’imbattibile difesa della Juve campione d’Italia era stata trasferita in blocco in Nazionale il 17 aprile di quel 1927, a Torino, per un’amichevole (vinta 3-1) col Portogallo. Combi, Rosetta, Ailemandi, Barale, Viola, Bigatto, Munerati, Vojak, Pastore, Ferrerò, Torriani: si presenta così la Juve al Filadelfia il 5 giugno, per il gran derby. E il Torino: Bosia, Balacics, Martin, Colombari, Janni, Sperone, Carrera, Baloncieri, Libonatti, Rossetti, Franzoni. E allora? Attacca il Toro, ma dalle parti di Combi non si passa.

Scrive Bruno Roghi, inviato della Gazzetta dello Sport: «I torinesi lavorano a maglie fitte, ma Allemandi è imbattibile, interviene, è sicuro e potente». Al 44' il colpo di scena: passa la Juve, con Vojak. La ripresa è un assedio granata e quando l’arbitro Gama assegna al Torino una punizione dal limite si presenta sul pallone il potente terzino ungherese Balacics: il tiro rasoterra non è irresistibile, ma la palla buca la barriera, gol. Traiettoria strana, secondo Roghi, il nostro “testimone oculare”: il pallone è passato tra le gambe curiosamente divaricate di uno juventino. Allemandi? No, Rosetta. E il Gigi? Continua a darci dentro: il Toro non trova altri spazi. Finché un bianconero non ha la bella pensata di farsi cacciare, per una reazione ingenua e spropositata. Allemandi? No, il centravanti Pastore. A un quarto d’ora dalla fine, la Juve, in dieci, annaspa e il Toro con Libonatti segna il gol della vittoria. Gol che potrebbe rivelarsi decisivo perché consente ai granata di mantenere inalterato il vantaggio sul Bologna ( 12 a 9) e di far fuori la Juve (rimasta a 7). A tre giornate dalla fine. Il Conte Marone brinda, Agnelli paga pegno e insomma al Toro, mai così vicino allo scudetto, festeggiano tutti. Tutti tranne Nani, quello della proposta indecente. Chissà perché.

La festa, però, dura poco: in settimana arriva in sede un telegramma che sulle prime fa pensare a uno scherzo. Il senso è più o meno questo: cari amici, ricordate il match d’andata col Bologna, vinto 1-0? E ricordate anche quel gol-non gol dei rossoblu che sarebbe valso il pari? Bene, anzi malissimo. Il signor Pinasco, l’arbitro, ha ammesso davanti alla CITA (una commis­sione che svolgeva anche le funzioni del giudice sportivo) di aver preso un abbaglio. E allora, poiché trattasi di errore tecnico, la gara è da ripetere. E quando? Si chiedono sgomenti quelli del Toro. Il 3 luglio, una settimana prima dell’ultimo turno di campionato. Poco importa che all’ultima giornata sia in programma il ritorno, al Littoriale: Torino-Bologna e Bologna-Torino, tutto in sette giorni. E la classifica? Torino 10, Bologna 9.

Lo scudetto è di nuovo in bilico. Come reagisce la cosiddetta opinione pubblica? Carlin, storica firma del Guerin Sportivo, scrive: «La CITA, soltanto quando ha letto l’esito della partita Torino-Juventus, s’è accorta di un errore tecnico nella partita Torino-Bologna, avvenuta quasi un mese prima», E Arpinati? Non è dato sapere. L’impressione è che non avesse gradito affatto il gentile omaggio al “suo” Bologna, proprio nel momento in cui mezza Italia lo accusava di essersi portato, con il trasferimento della Federcalcio a Bologna, il lavoro a casa. Di fatto il Resto del Carlino, di cui Arpinati era, come si direbbe oggi, azionista di riferimento, diede pochissimo rilievo alla ripetizione della partita, nonostante l’importanza della gara.

I duellanti nel frattempo cominciano a dare i primi segni di cedimento: il Bologna pareggia col Milan e perde con l’Inter, il Toro perde col Genoa, ma batte il Milan, portandosi sopra di due alla vigilia del doppio spareggio. Ma che strano: chi va ad arbitrare l’incontro di Torino? Tale Dani di Genova, uno che aveva diretto la stessa gara nella prima fase del campionato (il 16 gennaio) e che sull’1-1 aveva assegnato ai granata un contestatissimo rigore trasformato dall’infallibile Balacics. Così, sei mesi dopo, il prode Dani torna sul luogo del delitto e… concede il bis: rigore per il Toro, gol del solito Balacics e proteste molto più sommesse, benché di fatto quel gol assegnasse lo scudetto.

Il giorno dopo, sul Carlino, un trafiletto col risultato e, più in evidenza, il telegramma di felicitazioni che Arpinati aveva spedito al Torino fresco campione d’Italia. L’impressione è che si fosse ovviato in maniera artigianale – e soprattutto poco rumorosa – a una palese ingiustizia: il nuovo presidente della Federazione, per evidenti motivi di opportunità politica, non poteva permettere che il Bologna vincesse uno scudetto a quel modo. Inutile a questo punto il ritorno al Littoriale, che infatti il Toro affronta con una squadra imbottita di riserve. Vince 5-0 il Bologna, ma la goleada serve solo a consolidare il secondo posto dei rossoblu.

Estate torrida, quella del ’27. Al­la pensione di piazza Madonna degli Angeli le finestre sono bocche spalancate in cerca d’os­sigeno. Allemandi è in partenza: la villeggiatura, poi il probabile trasferimento al Bologna, dove avrebbe fatto coppia con un altro formidabile terzino, Monzeglio. Prima di partire, però, deve ave­re una risposta. Da Gaudioso. Che in un giorno di fine luglio si presenta nella stanza di Gigi con una cattiva notizia: «Nani non scuce». Sì, i soliti nomi: Nani, Gaudioso, Allemandi. I soliti so­spetti, anche. Ma allora, che co­sa era successo alla vigilia di quel derby, che il Toro doveva vincere “a tutti i costi”? Era suc­cesso che lo sprovveduto diri­gente del Torino aveva accettato la proposta di Gaudioso e aveva allungato 25.000 lire ad Alle­mandi con la promessa di far­gliene avere altrettante a partita giocata (e vinta). 50.000 lire… 50.000 lire erano cinque Balilla una dietro l’altra. 125 volte lo stipendio mensile che gli passa­va la Juve. Poi, il match era an­dato come era andato: il Torino aveva vinto, sì, ma Allemandi in campo si era fatto in tre, come al solito. E Nani non aveva nessu­nissima intenzione di sganciare la seconda rata. Questa era la ri­sposta che attendeva quel giorno di fine luglio Allemandi, questo gli fece sapere Gaudioso.

E questo fu quanto venne a sapere – troppo calda quell’estate, troppe le finestre aperte, troppo affollata la pensione di piazza Madonna degli Angeli – l’uomo che occupava la stanza vicina. Ferminelli era un giornalista romano trapiantato da qualche anno a Torino, dove, dopo un breve periodo di apprendistato alla Stampa, era stato assunto come redattore al Paese Sportivo. Tipo permaloso, questo Ferminelli: a inizio stagione il Torino non lo aveva incluso nell’elenco degli aventi diritto alla tessera permanente per il Filadelfia. Lui (sembra storia di oggi…) se n’era lagnato con la società, che si era scusata per l’equivoco e lo aveva invitato a passare in sede per ritirare l’agognata tessera. «Eh no», era stata la risposta. «Sta a voi farmela avere al giornale». Polemicuccia meschina finché si vuole, ma sta di fatto che il Toro non spedì un bel nulla e Ferminelli mai si degnò di alzare il posteriore dalla sua confortevole poltrona. In compenso, però, vergò per tutta la stagione articoli di fuoco contro il Torino, che comparvero pure su un foglio milanese, Lo Sport, e su un settimanale satirico romano, Il Tifone.

Anche Ferminelli boccheggiava per il caldo in quelle interminabili giornate di fine luglio, a Torino. Abitava in pieno centro: in una pensione di piazza Madonna degli Angeli. Figurarsi il godimento dello scriba quando le urla sempre più alte di Allemandi e Gaudioso invasero la sua stanza. Un pezzo sensazionale, servito a domicilio, e perdipiù capace di affossare l’odiato Torino. Su Lo Sport uscirono poche righe. I redattori milanesi vollero affrontare l’argomento con tanta cautela da rendere le allusioni contenute in un breve trafiletto assolutamente incomprensibili. Quelli del Tifone, invece, spararono un bel titolo: «C’è del marcio in Danimarca». E sotto, la piccata ricostruzione dei fatti del Ferminelli che avanzava sospetti sulla legittimità dello scudetto appena assegnato.

Poi, il silenzio. Silenzio espressamente richiesto dalla Federazione al direttore del foglio romano: era scattata l’inchiesta e non erano gradite interferenze. Il giallo richiedeva un ispettore: fu Giuseppe Zanetti, il segretario della Federcalcio che aveva rifiutato la tessera fascista. «Fu una inchiesta minuziosa», ricorderà lo stesso Zanetti molti anni dopo, «condotta in tutta segretezza con indagini svolte in Piemonte, in Lombardia e in Sicilia. In uno di questi viaggi venne visitata la pensione che ospitava Allemandi, Gaudioso e il giornalista per rilevare l’ubicazione delle camere. In quella di Allemandi vennero no­tati dei pezzettini di carta nel cestino, pezzettini di carta che vennero raccolti pensando che avessero potuto avere un riferimento con la questione che interessava. Infatti, incollati questi pezzettini su della carta trasparente (lavoro che durò ben diciotto ore) si potè ricostruire una lettera con cui Allemandi si lagnava del mancato versamento delle venticinquemila lire, sostenendo di aver collaborato e non poco alla conquista dello scudetto da parte dei granata. Non occorreva altro, ma era comunque necessario arrivare alla prova dei fatti senza far uso di quella lettera dalla quale non si riusciva a capire il perché non era stata spedita ma gettata nel cestino».

I protagonisti dell’intrigo vengono convocati e sottoposti a confronti incrociati. Oltre ad Allemandi, sono invitati a presentarsi a Bologna, davanti al Direttorio federale, altri due juventini: Munerati e Pastore. L’inchiesta procede fino all’inizio di novembre, quando ormai la stagione sportiva 1927-28 è in pieno svolgimento. Il 3 novembre, tre giorni prima di un importantissimo Italia-Austria valido per la Coppa Internazionale, Nani crolla, trascinando con sé il truce Gaudioso. E Arpinati non perde tempo, benché si sia a poche ore da un incontro tanto delicato.

Il 4 novembre un comunicato della Federcalcio costringe molti giornali all’edizione straordinaria: «Il Direttorio federale, accertato anche per confessione del dottor Nani, consigliere del Torino, che egli ha versato al signor Gaudioso, pure confesso, lire 25.000 destinate a taluno dei giocatori della Juventus per assicurare illegittimamente al Torino la vittoria nella gara del 5 giugno, delibera di togliere al Torino il titolo di campione assoluto d’Italia, per l’anno sportivo 1926-27».

A Torino restano di sasso, mentre l’Italia si interroga: cosa nasconde quel “taluno”? Arpinati scioglie il dubbio quarantatt’ore dopo in un’intervista alla Gazzetta dello Sport: «Non sono uomo da misteri. Dite pure, prima ancora che esca il comunicato ufficiale, che stanotte mi è stato possibile individuare il giocatore verso il quale il signor Gaudioso avrebbe esercitato con successo la propria opera di corruzione. Si tratta dell ‘ex juventino Allemandi che ho intenzione di squalificare a vita. Ove altre responsabilità venissero alla luce, colpirò con la medesima fermezza: ne potete essere certi».

La sentenza definitiva arriva il 21 no­vembre ed è per certi versi sorprendente: «Il Direttorio federale conferma le precedenti decisioni e squalifica a vita Luigi Allemandi, della cui colpevolezza è stata pienamente raggiunta la prova; richiama il giocatore Munerati a una più esatta comprensione dei suoi doveri in quanto un calciatore tesserato non può accettare doni di qualsiasi entità o natura da iscritti ad altre società; deplora e proibisce il malcostume delle scommesse anche di lieve cifra, specie quelle tenute contro le sorti dei propri colori e ammonisce per questa trasgressione il giocatore Pastore, lieto di constatare come l’episodio che ha dato luogo alle accennate sanzioni sia circoscritto a un solo giocatore e non possa quindi gettare ombra né onta sulla grande massa dei calciatori italiani». Il caso è chiuso.

Chiuso? Beh, insomma. La sentenza che sancisce la squalifica a vita del povero Allemandi (peraltro amnistiata nel giro di un anno) se la cava con un simpatico buffetto a Munerati, che – a quanto si desume – avrebbe accettato un “dono” da parte di una società avversaria (e Allemandi cosa aveva fatto?) e a Pastore che addirittura avrebbe scommesso sulla sconfitta della propria squadra. Il finale poi ha tutta l’aria di una giustificazione non richiesta (accusa manifesta, dicevano i latini): l’episodio è circoscritto – si sottolinea – e non scredita la «grande massa dei calciatori italiani». Insomma, le zone d’ombra sono parecchie. Perché Allemandi pretende con tanta foga la seconda rata del pagamento di Nani, pur essendo stato uno dei migliori in campo nel derby incriminato? Forse perché era un semplice intermediario che doveva girare i soldi ai diretti interessati? Il torinista Baloncieri qualche anno dopo lascerà ai posteri una frase sibillina: «Un fatto dubbio si era presentato agli inquirenti: quello di sospettare di un altro atleta che, per la sua dirittura morale, era inattaccabile».

Magari quello che aveva aperto inspiegabilmente le gambe al passaggio del tiro non irresistibile di Balacics, che aveva consentito al Toro di pareggiare? Gianni Brera, nella sua Storia critica del calcio italiano, la risolve così: «A questo punto, non sembra necessario essere Sherlock Holmes per appurare come sia andata, e subito dopo capire come abbia potuto Allemandi militare nell’Inter di Giovanni Mauro, vicepresidente della Federazione e temibile capo degli arbitri. I sottili ricatti reciproci avevano lasciato alla Juventus il terzino più dotato di classe (Ro­setta) e avevano impedito al Bo­logna di acquistare un terzino che avrebbe fatto irresistibile coppia con il suo Monzeglio ai Mondiali 1934».

Il sacrificio di Allemandi, insomma, giova paradossalmente alla Juventus, che in questo modo evita di perdere altri giocatori. E perché una volta tanto l’inflessibile presidente non usa il pugno di ferro? Chissà. Certo, è curioso notare che solo un anno prima (il 2 maggio 1926) Edoardo Agnelli, per conto del padre Giovanni, aveva ceduto ad Arpinati l’intero pacchetto azionario degli Stabilimenti Poligrafici Riuniti, società editrice del Resto del Carlino. E benché Arpinati, come pare, si fosse deciso all’acquisto più per pressioni esterne che per un effettivo interesse, l’affare appena concluso lo collocava in una posizione di evidente soggezione nei confronti della potente famiglia torinese. Inconvenienti – mettiamola così – del conflitto di interessi… E Allemandi? Non volle più tornare sull’argomento. Solo nel 1976, poco prima di morire, confessò a Carlo Moriondo di Stampa Sera: «Sì, c’era stato qualcosa di poco chiaro quel giorno. Ma il colpevole non ero io…».

L’impressione che il losco triangolo Nani-Gaudioso-Allemandi non fosse che la punta dell’iceberg la dà peraltro lo stesso Arpinati quando spiega perché non sarà il Bologna, secondo classificato, a fregiarsi del titolo di campione d’Italia. Dalla Gazzetta dello Sport del 7 novembre 1927: «Il titolo passerà ora al Bologna? Assolutamente no. Il risultato dell’inchiesta è tale che ho riportato l’impressione precisa che talune partite di campionato abbiano falsato l’esito del campionato stesso. Il Bologna non avrà perciò il titolo tolto al Torino; il campionato 1926-27 non avrà il suo vincitore».

Probabile che Arpinati si riferisse anche al caso Pinasco (l’arbitro che ammise l’errore tecnico in Torino-Bologna con un mese di ritardo) o ad altre vicende mai venute in superficie. Eppure nel corso degli anni da Torino e da Bologna si sono susseguiti a intervalli più o meno regolari appelli, raccolte di firme e addirittura interrogazioni parlamentari, per riaprire il fascicolo e assegnare una volta per tutte lo scudetto di nessuno. Uno scudetto che però non può andare a Torino perché – fosse o non fosse Allemandi l’unico colpevole – è provato che la corruzione avvenne, anche se Nani agì, come continuò a ripetere, a titolo personale. Uno scudetto che, tutto sommato, non può neppure scendere sulla maglia dei secondi classificati, sui quali si allunga, inquietante, l’ombra dello spinoso e mai del tutto chiarito caso Pinasco. Se Arpinati non premiò il “suo” Bologna, lasciando che il primo campionato della sua gestione si chiudesse senza un vincitore, non lo fece, evidentemente, solo per dimostrarsi al di sopra delle parti. La morale, per chi ne sentisse il bisogno, è unica, ritagliabile e sovrapponibile alle tristi vicissitudini odierne. Scrisse un anonimo editorialista del Resto del Carlino: «Purtroppo il football ha assunto in qualche località aspetti diremo quasi industriali: le società sono organizzate come grandi aziende, dove lo sport, che dovrebbe essere sempre sinonimo di cavalleria e di purezza, deve camminare a braccetto con l’interesse».
Era il 5 novembre dell’Anno del Signore 1927…

 

 

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