berlusconeide

 

Berlusconeide capitolo X (III)

 

La ferita di Istanbul (terza parte)

 

Chiaramente in un paese come l’Italia, legato a doppia mandata al dio risultato e ai titoli portati a casa come parametro di giudizio di una stagione, quel Milan beffato nel finale, senza dubbio da errori propri, ma anche da una buona dose di sfortuna, era il facile bersaglio di un certo tipo di comunicazione, fatta più di slogan e di luoghi comuni che di effettivi contenuti tecnici.
Tra una stagione storica e una stagione beffarda il confine in fondo è stato labile, molto sottile, appeso ai fili di un destino che a volte si diverte a tirare i dadi, salvo poi restituirti ciò che ti toglie sotto forma di segnali che spetta a te cogliere.
Segnali che il Milan, con Ancelotti e il gruppo storico della squadra, han saputo cogliere nel momento in cui si sono presentati.
Galantuomo il destino del calcio, lui si. Certamente poco avvezzo alle classiche polemiche da quartiere nelle quali si dibatte il nostro mondo calcistico, così puerile a volte da risultare stucchevole nella sua scarsa conoscenza delle dinamiche del calcio.

Instanbul non è mai stata per Ancelotti una macchia. Carlo ha sempre considerato quella partita come una delle gare più belle della sua carriera di allenatore, preparata in maniera impeccabile e gestita, a suo giudizio, come meglio non si poteva.
Ancelotti negli anni non è mai stato schiavo di quel risultato bizzarro, ha provato, anche semplicemente con la sua immancabile ironia ed acutezza, a esaminarlo e a sventolarlo come un credito che prima o poi avremmo potuto e dovuto esigere dal destino del calcio.
La società lo ha coperto e lo ha tutelato, così come ha difeso tutta la squadra, conscia del fatto che quella di
Instanbul dal punto di vista psicologico era stata veramente una botta tremenda.
Una botta tremenda dalla quale il Milan saprà rialzarsi, trovando nella forza del gruppo e dei cromosomi rossoneri la vera molla per l’unica impresa capace di far dimenticare questa macchia.

C’erano una volta i fratelli Grimm, forse i migliori scrittori di favole per bambini, favole così belle che avevano la capacità di rapire chi le leggeva, immedesimandosi in uno dei protagonisti, patteggiando apertamente per un eroe.
Quella del Milan è stata una favola, perché ciò che abbiamo provato ad Atene nel momento in cui l’arbitro ha fischiato la fine della partita è stato qualcosa che è difficile descrivere con poche parole, una sensazione di leggerezza e di commozione unita alla gioia e alla paura, si proprio la paura di non riuscire a vivere quell’attimo pienamente e intensamente, consci della sua finitezza e dell’incapacità tutta umana di fermare il tempo.

Il calcio non è solo schemi, tattiche, acquisti, cessioni, ragionamenti, ma è anche e soprattutto cuore coraggio e passione.
Il calcio è un insieme di emozioni che vale la pena vivere pienamente.

La cavalcata rossonera nel deserto inizia così in una calda e afosa estate del 2005 con una delusione così cocente da smaltire che ognuno ricorre ai rimedi che conosce.
Quei sei minuti di follia però restano un boccone amaro che non si riesce a digerire, un imponderabile evento a cui non ci si abitua, che ha privato il Milan di qualcosa che sentiva appartenergli, che riteneva di meritare dopo una Champions da assoluto protagonista.

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