storie calcio

 

Morte nel pomeriggio

 

In un freddo pomeriggio di ottobre a Perugia, si consuma il destino del piccolo grande Renato Curi

 

Riaffiorano i brividi, sull’onda di un singolare scambio via radio. «Scusa Ameri, qui a Perugia…» «Ho già capito tutto, Ciotti, e ti passo la linea». Ma il grande Enrico Ameri non poteva immaginare, come tutti gli sportivi in ascolto quella maledetta domenica, che Sandro Ciotti non chiedeva il collegamento per intervistare qualche personaggio catturato al volo dopo il calcio minuto per minuto, ma per consegnare un terribile annuncio: «Il centrocampista Curi del Perugia è morto».

Domenica 30 ottobre 1977. A Perugia, nello stadio di Pian di Massiano, si gioca Perugia-Juventus. Gli umbri, guidati da Ilario Castagner, sono protagonisti di un piccolo miracolo di provincia e benché il campionato tocchi quel giorno appena la quinta giornata, il primo posto in graduatoria a pari merito con le grandi Juventus e Milan ha acceso nuovamente i riflettori su questa nuova realtà del calcio italiano. Fatta di un modulo in qualche modo “totale” (in omaggio alla moda dei tempi), che significa soprattutto una squadra in cui tutti corrono e si sacrificano per il bene comune. E in cui peraltro non mancano individualità magari non di assoluto spicco, ma certo di valore. Se Novellino ha le stimmate del campione, due centrocampisti, il regista Curi e l’interno Vannini, l’uno il più piccolo del torneo (1,65) l’altro l’anima più lunga (1,90), sono considerati esponenti tipici delle migliori qualità della provincia. Hanno classe insomma, epossono portare lontano la squadra.

La partita con la Signora del Trap è di quelle bloccate, marto­riata da una pioggia battente, su un terreno zuppo d’acqua, fatico­sissimo da tenere per i giocatori. Nel primo tempo Curi, uno dei migliori in campo per la puntualità della gestione della manovra, si infortuna leggermente in uno scontro con Causio. Nella ripresa tuttavia rientra, ma dopo cinque minuti, sotto la pioggia, si accascia improvvisamente al suolo. Il gesticolare disperato dei giocatori juventini accanto a lui, Benetti, Bettega e Scirea, fa pensare a qualcosa di grave, ma nessuno riesce a comprendere, non essendosi visti contrasti di gioco violenti. Arriva la barella, il giocatore esanime viene portato fuori dal campo. I medici del Perugia gli praticano due iniezioni, il massaggio cardiaco, la respirazione bocca a bocca: Curi è paonazzo, il battito del cuore è inceppato. Mentre la partita, tra com­pagni e avversari ignari, prosegue, viene caricato su un’autoambulanza e portato al Policlinico di Perugia. Dove tuttavia arriva praticamente cadavere: i tentativi di rianimarlo proseguono per una quarantina dì minuti, finché, alle 16,30 (in lugubre, perfetta contemporaneità con la fine della partita fischiata dall’arbitro Menegali) il giocatore viene dichiarato ufficialmente morto. Una fine terribile per la sua fulmineità.

Come sempre accade, un attimo dopo sì scatenano le polemiche. Si apprende che il giocatore ammetteva senza problemi, scherzandoci su, di avere “il cuore matto”, dunque i medici po­trebbero avere avuto qualche responsabilità nella sua tragica fine. Perché non gli era sta­to impedito di mettere a repentaglio la propria vita? E poi: il giocatore era reduce da un infortunio a una caviglia, fino all’ultimo la sua presenza in campo era stata incerta. Curi era importantissimo per il gioco del Perugia e anche dal punto di vista psicologico contava averlo in campo: suo era stato il gol alla Juventus che nell’ultima giornata del campionato 1975-76 aveva sottratto lo scudetto alla Signora, regalandolo al Torino.

«In termini clinici» aveva assicurato il medico del Perugia alla vigilia «il giocatore è perfettamente guarito: le uniche perplessità riguardano la sua attuale tenuta atletica». E allora non era stato forse forzato quel rientro? Due giorni dopo, martedì 1 novembre, la “Gazzetta dello Sport” annuncia: «Curi non è stato fermato in tempo». Decisiva la dichiarazione del professor Severi, autore dell’autopsia: «È stata trovata una malattia cronica del cuore capace di dare morte improvvisa». Le polemiche sì scatenano furiose, per placarsi a poco a poco, secondo consolidato quanto cinico copione, dopo qualche giorno, sull’urgere dì altre attualità. Il compagno di squadra Lamberto Boranga, portiere e medico, avanza l’ipotesi che il giocatore conoscesse i rischi cui andava incontro, ma li mettesse nel conto della sua passione per il calcio, cui gli sarebbe parso impossibile rinunciare.

Ma chi era Renato Curi? Non un campione nel senso pieno del termine, forse stava diventandolo, come spesso capita al culmine di carriere nate in sordina e costruite con serietà e professionalità anno dopo anno. Era nato ad Ascoli Piceno il 20 settembre 1953 ed era cresciuto nel Giulianova, con cui aveva esordito in Serie D. Quattro stagioni, con la promozione in C, e il posto da titolare a diciassette anni, segno di un talento autentico. Instancabile motorino di centrocampo, aveva il dono di saper far girare i compagni, trovandosi sempre nel vivo del gioco. A vent’anni, la prima occasione gliel’aveva offerta il Como, ma quella stagione in B non era stata esaltante. Allora lo aveva preso Castagner al Perugia, venendone ripagato con la pronta promozione in A. Un evento storico, così come la brillantissima salvezza dell’anno successivo. L’umile gregario, avanzando l’esperienza, si scopriva regista di eccellente puntualità anche nella massima serie.

Ma a ventiquattro anni appena il suo sogno doveva essere spezzato. In una intervista, così aveva spiegato il “moto perpetuo ” del suo gioco: «Non so dire come mai corro tanto. Ho polmoni come gli altri, una certa vocazione per la corsa, da ragazzo ero buon mezzofondista, 800, 1500, 3000 metri. E poi ho un cuore matto, capriccioso. Dicevano che ero malato, pensate un pò. Dal Giulianova al Como ebbi un intoppo. E mi mandarono al Centro Tecnico di Coverciano perché il cuore aveva battiti irre­golari. Però è un cuore di atleta, si assesta appena compio degli sforzi. Quando corro, quando mi affatico, i battiti diventano per­fetti. Come capitava a Bitossi, il campione ciclista che chiamava­no appunto Cuore matto»

La vicenda giudiziaria si trascinò per qualche anno, chiudendosi in primo grado con l’assoluzione e poi in appello con una lieve condanna (un anno coi benefici di legge) per il medico del Perugia e quello del Centro Tecnico di Coverciano. Il pubblico ministero nella sua appassionata arringa aveva detto: «Quando un giocatore entra in una squadra professionistica, diventa solo un numero per tecnici, medici, dirigenti».

 

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