pioli

 

Quando Pioli non era on fire

 

Bivi decisivi della carriera di un allenatore sottovalutato.

 

 

Il 3 aprile del 2016, dopo aver perso rovinosamente un derby in cui si era trovato costretto a sfoderare il quartetto difensivo Patric-Bisevac-Hoedt-Braafheid, Stefano Pioli veniva esonerato da Claudio Lotito. Aveva affrontato quella stracittadina sapendo di essere in bilico, si era presentato allo stadio Olimpico con il completo sociale, il capello corto, quella barba appena incolta di chi ha troppi pensieri. Era la trentunesima giornata di campionato, la Lazio era ottava, vittima di una di stagione in cui era bastato un infortunio, quello di Stefan de Vrij, per aprire un canyon nel quale era finito tutto il buon lavoro fatto nel corso della sua prima annata biancoceleste, quella dell’esplosione di Felipe Anderson e del secondo posto perso in volata proprio con la Roma, del successo decisivo in casa del Napoli per strappare il preliminare di Champions e della finale di Coppa Italia persa contro la Juventus anche a causa di un insensato doppio palo colpito da Filip Djordjevic (qualora foste interessati, sappiate che il serbo si è ritirato la scorsa estate dopo tre anni al Chievo).

 

Per più di un anno e mezzo Pioli era parso un tecnico eccellente, con una personalità troppo poco dirompente per imporsi in una città come Roma, schiacciato dalla pressione e dal confronto, soprattutto nel primo anno, con il suo rivale cittadino Rudi Garcia, teatrale e teatrante, capace di conquistare tifosi e giornalisti con frasi a effetto sfornate copiosamente durante le conferenze stampa. Lotito aveva deciso di dargli il benservito a poche giornate dalla fine, promuovendo al suo posto dalla Primavera Simone Inzaghi, proprio l’allenatore con cui quest’anno si è giocato lo scudetto. Ma se il percorso dell’attuale tecnico dell’Inter è stato assurdo nella sua partenza (con la storia dell’arrivo poi saltato di Bielsa) ma poi complessivamente lineare (5 anni sempre con la Lazio), quello di Pioli è stato segnato da una serie di sliding doors impressionanti tra esoneri e chiamate improvvise. Anche solo per arrivare e restare al Milan è dovuto passare attraverso due diversi momenti in cui era praticamente lontano dalla panchina rossonera.

 

Dopo 112 giorni, l’avventura di Marco Giampaolo al Milan è già finita. Un cammino tecnico a dir poco zoppicante si conclude con l’esonero nonostante la vittoria contro il Genoa, arrivata anche grazie al rigore sbagliato da Lasse Schone in pieno recupero: Paolo Maldini aveva lasciato la tribuna del Ferraris all’intervallo, Zvonimir Boban prima del fischio finale. Giampaolo era così entrato in quella ristretta cerchia di allenatori capaci di perdere il posto anche dopo un successo: era capitato anni prima a Gigi Simoni, sarebbe capitato poi a Carlo Ancelotti (al Napoli) e a Thomas Tuchel (al Psg).

 

In quelle ore, il Milan ha un solo nome in testa, quello di Luciano Spalletti. Il tecnico toscano è fermo da qualche mese, con l’Inter che ha scelto Antonio Conte al suo posto, ma è ancora sotto contratto con i nerazzurri. Inizia così, neanche troppo sotto traccia, una trattativa tra le parti. Sono quelle che nel gergo giornalistico vengono definite «ore di valutazione». Spaventano gli oltre 4 milioni netti percepiti da Spalletti all’Inter, forte di altri due anni di contratto. Dal canto suo, Beppe Marotta non ha la minima intenzione di agevolare questo passaggio. Già in estate aveva ingaggiato un braccio di ferro con Giovanni Martusciello, ex vice di Spalletti destinato a entrare a far parte dello staff di Maurizio Sarri alla Juventus, riuscendo a risolvere il contratto senza buonuscita. E Pioli? Ha un’offerta sul tavolo, e non è quella del Milan.

 

C’è infatti chi nelle prime sette giornate di campionato ha fatto peggio di Giampaolo. È Eusebio Di Francesco, una vittoria e sei sconfitte alla guida di una Sampdoria che danza sull’orlo del baratro. L’abruzzese ha un contratto faraonico per una squadra che non ha ambizioni di alta classifica, tre anni a 1,8 milioni di euro netti (senza contare lo staff), ma i risultati sono così drammatici da indurre Massimo Ferrero a procedere con l’esonero. Il favorito per la panchina doriana è proprio Pioli, che le voci di mercato avevano accostato anche alla guida del Genoa, con Andreazzoli in uscita. La partita tra il “Grifone” e il Milan era stata presentata come quella delle panchine dondolanti e Pioli, insieme a Davide Nicola, sembrava uno dei nomi più caldi. Ma alla fine, nonostante la sconfitta, la dirigenza rossoblù aveva deciso di insistere su Andreazzoli. Pioli si ritrova dunque in pole per la Sampdoria, fortemente voluto dal direttore sportivo Osti, anche perché rappresenta un’alternativa più economica rispetto a Claudio Ranieri: secondo le indiscrezioni, si accontenterebbe di poco più di un milione per i mesi rimanenti della stagione.

 

A pensarci oggi viene quantomeno da sorridere, ma la dimensione di Stefano Pioli nell’autunno del 2019 è quella di un allenatore che ha sprecato, secondo gli addetti ai lavori, la chance che avrebbe potuto cambiargli la carriera: era arrivato all’Inter nel novembre del 2016 al posto di Frank de Boer ed era parso in grado di condurre i nerazzurri al traguardo Champions, salvo poi infilare una serie terribile tra la 29esima e la 35esima giornata. I due punti raccolti in quell’arco di tempo gli erano costati la panchina e lo avevano portato verso Firenze, un biennio senza grosse soddisfazioni in una città in cui era stato a lungo da calciatore. Durante la parentesi viola Pioli aveva vissuto il dramma della perdita di Davide Astori. Anche ora, a distanza di anni, non appena ne ha modo, il tecnico ricorda il rapporto speciale costruito in quei mesi con il suo capitano.

 

Durante la seconda stagione arrivate delle dimissioni che avevano lasciato un sapore amaro in bocca all’allenatore e che avevano raccontato molto della persona Pioli: «Sono stato costretto a lasciare: sono state messe in dubbio le mie capacità professionali e, soprattutto, umane». Il riferimento era alla nota pubblicata dalla società viola dopo un incontro tra Andrea Della Valle, Mario Cognigni, Pantaleo Corvino e Giancarlo Antognoni, convocato dopo la sconfitta in casa con il Frosinone. Un comunicato con il quale non si esonerava il tecnico, ma lo si metteva in guardia pubblicamente in maniera decisamente poco simpatica: «Chiediamo a tutti il rispetto per la maglia e per i traguardi che si possono ancora ottenere nel finale di stagione. L’impegno deve essere totale da parte di tutti. La proprietà non è assolutamente disposta ad accettare quel che sta accadendo da qualche mese a questa parte. A Pioli chiediamo di gestire questo momento con la competenza e la serietà che ha dimostrato nella prima parte del campionato».

 

 

 

Il profilo di Pioli sembra dunque quello di un tecnico che deve ripartire da una sfida difficile, e la Samp, in quel momento, lo è. Intanto il Milan lavora ai fianchi Spalletti, al quale viene affidato l’onere di provare a confrontarsi con l’Inter per una buonuscita. Il tecnico toscano, secondo le indiscrezioni di quei giorni, chiederebbe cinque milioni per togliere il disturbo. Più che una necessità, una presa di posizione, una questione di principio: non gli sta bene essere stato sacrificato per Conte dopo due stagioni che riteneva più che positive. Il dialogo tra le parti vede Spalletti, sempre secondo le ricostruzioni, scendere ad almeno un anno di stipendio da saldare. L’Inter non ne vuole sapere ed è a questo punto che Pioli ringrazia il cielo di aver aspettato a decidere: riceve la chiamata del Milan ed è pronto a dire sì.

 

Sui social succede il finimondo. Per giorni l’hashtag di riferimento diventa #pioliout, campagna che attira l’attenzione dei media e scatena gallerie su gallerie dell’implacabile «ironia del web», una di quelle cose che generano click a dismisura senza un vero perché. Oltre all’immancabile bufera su Twitter, con l’hashtag che entra nelle tendenze mondiali, se ne scatena un’altra, su Facebook, sotto un post del Milan che voleva ricordare il compleanno di Nils Liedholm. Rileggere oggi i commenti riservati a Pioli e Maldini è un’esperienza lisergica.

 

 

Nelle ore subito successive alla firma, ne viene discusso non solo il livello come allenatore – il concetto più ricorrente è che non ha senso cacciare un tecnico mediocre per prenderne un altro -ma anche il suo passato interista. Non la parentesi di qualche anno prima, bensì il tifo durante l’infanzia. Deve quasi scusarsi nella prima conferenza stampa: «Ero un bambino timido e paffutello, ora sono un uomo maturo e pelato. Sono un professionista e voglio essere giudicato solo per quello che farò con il Milan e non per il passato, quando non avevo ancora le idee chiare». È un inizio difficilissimo, soprattutto per un allenatore sul quale continuavano a pendere anche dubbi caratteriali: il difetto di Pioli diventa quello di essere «una brava persona».

 

Gli allenatori che piacciono sono altri, quelli che ammiccano alla stampa e fomentano la piazza, pronti ad appendere al muro un calciatore. Pioli non è nulla di tutto questo e la sua «normalità» finisce per contaminare, in quei giorni come anche era successo al momento del suo arrivo all’Inter, anche i giudizi tecnici. Viene ritenuto in maniera errata un «normalizzatore», termine orrendo che serve solo per identificare un allenatore italiano pronto a fare il compitino. Pioli, i cui tratti di gioco sono a volte estremi, con una ricerca quasi ossessiva del pressing, la voglia di scompaginare tatticamente le partite manipolando le posizioni dei terzini, cercando di togliere riferimenti alle difese avversarie spostando i suoi uomini a seconda delle necessità e di quel che offre la partita, viene fatto passare per un esponente della vecchia scuola del calcio italiano. Non se ne esce: Pioli è un «normalizzatore» soltanto perché appare come una persona normale.

 

Pioli arriva al Milan a ottobre 2019 e una manciata di mesi dopo viene già percepito come l’ennesimo traghettatore con la data di scadenza. In campionato vince una sola volta – contro la SPAL – nelle prime sei partite. Poi le cose migliorano, ma non senza fatica: vince a Parma e Bologna grazie a Theo Hernandez, che inizia a prendere importanza nel gioco della squadra; ma poi si arriva al 22 dicembre 2019, a quel Atalanta-Milan 5-0. Ilicic è in una di quelle giornate in cui potrebbe camminare sulle acque, il Diavolo si riscopre piccolo come raramente gli era successo nel corso della sua gloriosa storia. È soprattutto privo di un’anima ed è per questo che Zvonimir Boban alza il telefono e chiede a Zlatan Ibrahimovic di tornare a Milanello per sporcarsi un po’ le mani.

 

Nelle settimane successive arriva vittoria, le prestazioni migliora. Poi, però, di nuovo i dubbi: il 9 febbraio il Milan rientra negli spogliatoi per l’intervallo del derby avanti di due reti, firmate da Rebic e Ibrahimovic. Il pubblico rossonero quasi non ci crede, e infatti puntuale arriva la doccia gelata, con il ribaltone interista nella ripresa fino al 4-2. Quel giorno, Pioli centra una bizzarra impresa: per la terza volta in carriera, riesce a non vincere un derby che aveva chiuso avanti 2-0 all’intervallo (Roma-Lazio 2-2 nel gennaio del 2015, Inter-Milan 2-2 nell’aprile del 2017). Ma a scuotere l’ambiente rossonero è soprattutto quello che accade una ventina di giorni dopo.

 

 

 

Zvonimir Boban, intervistato dalla Gazzetta, spara a zero contro la proprietà per cui lavora. Ad aprire la crepa è l’incontro dei vertici societari con Ralf Rangnick, in quei giorni Head of Sports and Development della galassia Red Bull. Il croato, che non ha mai fatto della diplomazia il suo punto forte, non si fa troppi problemi: «La cosa peggiore è che questo evento destabilizzante avviene in un momento durante il quale la squadra sta crescendo e si vede un grande lavoro di Pioli, in un momento dove si percepisce che si sta formando un percorso nettamente migliore. Non avvisarci è stato irrispettoso e inelegante. Non è da Milan. Almeno quello che ci ricordavamo fosse il Milan. Per come la vedo io, l’unità significa condivisione, l’unità è rispetto. Alla fine, la base di tutto è avere questo approccio, è l’unica via per poter lavorare e sentirsi bene». Il nome di Rangnick aveva preso a circolare in realtà già dalla fine di novembre, quindi ben prima di Atalanta-Milan, dell’arrivo di Ibrahimovic e della lenta ripartenza rossonera. Boban è convinto che l’accordo sia stato trovato alla fine di dicembre e alle sue spalle, oltre che a quelle di Paolo Maldini, che a metà febbraio, a Sky Sport, aveva bocciato l’idea: «Ho letto. Sinceramente come direttore dell’area sportiva non credo, lo dico con rispetto, che sia il profilo giusto per associarlo a una squadra come la nostra».

 

Che la vicenda Rangnick stia per diventare un pastrocchio di dimensioni spropositate lo si capisce quando il Milan silura Boban il 7 marzo, a una settimana mal contata dall’intervista alla Gazzetta dello Sport. Il comunicato parla di «risoluzione del contratto con effetto immediato» ma il croato, stavolta interpellato da Il Giornale, rilancia: «Non sapevo fossimo in Corea del Nord. La mia intervista è legalmente ineccepibile ed è arrivata dopo tante domande di chiarimenti interni, puntualmente ignorati». Maldini resta in sella, ma tutti lo danno pronto a lasciare il Milan al termine della stagione. Di mezzo, però, ci si mette una pandemia. Boban salta il 7 marzo, il 9 l’Italia entra in lockdown e anche il campionato viene interrotto. Quando riparte, il Milan diventa un tornado. Fa quattro gol al Lecce, due alla Roma, tre alla Lazio e quattro alla Juventus dopo essere andato sotto 0-2. E poi tre al Parma e cinque al Bologna.

 

 

In tutti quei mesi, anche durante lo stop, di Rangnick al Milan si parla come di una cosa solamente da ratificare ma già praticamente ufficiale. Il 4 maggio, in un’intervista alla Mitteldeutsche Zeitung, Rangnick mette in chiaro alcune questioni: «L’interesse del Milan c’è, ma col coronavirus ci sono state altre cose da considerare, oltre a pensare se Ralf Rangnick fosse l’uomo giusto per loro o viceversa. Per me si tratta di aver una certa influenza, che non c’entra col potere, anche se in certe situazioni ne hai bisogno per portare avanti certe cose».

 

Siamo abituati a vedere Paolo Maldini estremamente pacato, impassibile, inattaccabile: come ha scritto Giuseppe Pastore, «non è facile andare contro Maldini, che si porta a spasso da cinquant’anni quella regalità e quel portamento che gli danno sempre l’impressione di sapere perfettamente cosa sta facendo». Eppure, in quei giorni, sembra lecito ipotizzare un Maldini discretamente arrabbiato. La sua replica alla richiesta di pieni poteri da parte di Rangnick è piccata, risentita: «Non avendo mai parlato con Rangnick non capisco su quali basi vertano le sue dichiarazioni, anche perché dalla proprietà non mi è mai stato detto nulla. Alcune considerazioni secondo me però vanno fatte, il tecnico tedesco infatti, parlando di un ruolo con pieni poteri gestionali sia dell’area sportiva che di quella tecnica, invade delle zone nelle quali lavorano dei professionisti con regolare contratto. Avrei dunque un consiglio per lui, prima di imparare l’italiano dovrebbe dare una ripassata ai concetti generali del rispetto, essendoci dei colleghi che, malgrado le tante difficoltà del momento, stanno cercando di finire la stagione in modo molto professionale, anteponendo il bene del Milan al proprio orgoglio».

 

In mezzo a una tempesta più grande di lui, sballottato da una parte all’altra, Stefano Pioli si affida all’unica religione che conosce profondamente, quella del lavoro. È con le vittorie, con un Milan moderno e di respiro europeo, che riesce a creare una breccia in quell’ala milanista pronta a sacrificarlo, insieme a tutti gli altri, sull’altare di Rangnick. Gli dicono che la squadra vince perché non sente più i mugugni di San Siro: qualcosa che deve averlo ferito o quantomeno toccato, visto che la ritirerà fuori durante la festa scudetto, per esaltare i tifosi e ringraziarli del sostegno. Dalla sua, per una volta, trova anche una bella fetta di stampa italiana, che si scaglia contro il nemico straniero per difendere un tecnico che evidentemente ritiene più vicino. Ma lo fa sempre prendendolo dal lato sbagliato, provando a vendere la storiella del normalizzatore che in realtà normalizzatore non è. Chi sui giornali e in tv attacca Rangnick e difende Pioli, in quelle ore, lo fa per i motivi sbagliati, per difendere un’ideologia che ha più a che fare col dogmatismo che con l’analisi dei fatti. Si parla del tedesco come un visionario pazzo e un utopista, mentre il calcio di Pioli diventa il calcio del buon senso, della signorilità, dell’onestà. Due aspetti, questi ultimi, indubbiamente accostabili a Pioli, ma che se usati in opposizione a Rangnick hanno l’unico scopo di far passare il tedesco come un seguace di Eichmann. I motivi per difendere la conferma di Pioli ci sono, ma non vengono usati.

 

La notizia del rinnovo di contratto arriva all’improvviso il 21 luglio, pochi minuti dopo la vittoria del Milan a Reggio Emilia, contro il Sassuolo – a proposito di cerchi che si chiudono – con l’ennesimo show di Ibra, autore di una doppietta. Rangnick, alla luce del polverone che si era alzato, aveva deciso di tirarsi indietro, spiegando poi così la sua rinuncia: «Da quando è ripreso il campionato, il Milan ha fatto molto bene. Non sarebbe stato saggio andarci, da qualsiasi prospettiva la si guardi». Nel comunicato con cui il Milan annuncia il rinnovo fino a giugno 2022, a Pioli viene riconosciuto il grande lavoro nel riavvio della stagione e «il modo in cui ha fatto sua la nostra visione». È la vittoria del fronte composto da Maldini e da Ricky Massara, quest’ultimo forse l’artefice più sottovalutato del nuovo boom milanista, ed è soprattutto la vittoria di Pioli, di quelle spalle da uomo comune che i tifosi del Milan, una volta accettata la loro normalità dopo decenni passati a dominare in Italia in Europa, hanno imparato ad apprezzare.

 

Il 15 maggio 2022, in un San Siro bollente (anche per la temperatura) e adorante, Stefano Pioli non riesce a non ballare. Ha la testa rasata, una barbetta bianca che gli dà un tono ascetico, si gode il coro di una folla che ha imparato ad apprezzarlo per il lavoro più che per le sue dichiarazioni, in una meritata rivincita della serietà. Dagli spalti cantano che «Pioli is on fire» e lui agita i pugni mentre tutti i suoi ragazzi fanno altrettanto, con Leão che sembra pienamente a proprio agio e Saelemaekers che invece pare solamente ubriaco. Il Milan non ha ancora vinto lo scudetto ma Pioli sa già come andrà a finire, perché allena una squadra che ha imparato ad accettarsi, che ha sconfitto i pregiudizi che l’hanno accompagnata per mesi andando oltre ogni asticella immaginabile. Non poteva essere l’ultima tappa a riscrivere il finale del film. Vedere questo Pioli oggetto dei cori e del desiderio, uomo danzante e spensierato al termine di una parabola umana degna di un grande romanzo, cozza terribilmente con l’immagine che avevamo di lui negli anni precedenti. Eppure, come avrebbe detto Corrado Guzzanti nella sua interpretazione di Gianfranco Funari, è tanto liberatorio.

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