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Come il Milan ha costruito la rosa dello scudetto

 

Con un metodo poco comune in Italia

 

 

Una delle espressioni più utilizzate per descrivere la cavalcata del Milan nelle ultime settimane è quella di chiusura di un cerchio. Per quanto una frase abusata, poche storie, in effetti, seguono la circolarità del diciannovesimo scudetto milanista. Il Milan che si costruisce il match point battendo in casa l’Atalanta chiude il cerchio con il punto più basso della gestione Gazidis-Maldini-Massara, la sconfitta per 5-0 di Bergamo a fine 2019, con Gasperini a saltare sulle note di “chi non salta rossonero è”.

 

Chiudere il cerchio, però, significa anche sconfiggere i propri fantasmi, e per il Milan della “banter era” il Sassuolo e Mimmo Berardi rappresentano due degli incubi più ricorrenti. Sono tante e memorabili le sbandate contro i neroverdi: l’incubo di un’ennesima prestazione epocale dell’ala calabrese avrà fatto visita a più di un tifoso rossonero nella notte tra sabato e domenica. Sassuolo-Milan, peraltro, in maniera periferica rimanda al più grande punto di svolta della storia recente del diavolo. A luglio 2020, in quel bizzarro periodo di partite concluse intorno a mezzanotte, mentre Rebic e Ibra sgominavano il Mapei Stadium, in un primo accenno di rinascimento rossonero, i telecronisti di Sky sospendevano il racconto della partita per un improvviso annuncio di mercato: la proprietà rossonera aveva deciso di sciogliere gli accordi con Ralf Rangnick per proseguire con Maldini e Pioli.

 

L’ultimo dettaglio, forse il più marginale, legato alla narrazione della circolarità, richiede di spostarsi di oltre ottocento chilometri più a nord. Lo scorso fine settimana è stato il weekend in cui abbiamo conosciuto il futuro di Kylian Mbappé. La prima conseguenza del rinnovo del francese col PSG è stato il licenziamento di Leonardo. Nell’estate del 2019, le dimissioni del brasiliano da direttore sportivo del Milan e il suo ritorno a Parigi, sembravano certificare in maniera definitiva la minorità del club di proprietà dei Singer: troppo anguste, ormai, le prospettive rossonere per un uomo di mondo con le sue ambizioni. D’altronde, non c’era più molto margine di manovra dopo aver speso ottanta milioni per Piatek e Paquetà. O almeno: non con i suoi metodi.

 

Il confronto tra la parabola di Leonardo e quella di Maldini e Massara, non potrebbe essere più spietato: la dimostrazione di come, prima ancora di un buon eloquio e della dimestichezza nei rapporti interpersonali, nel calcio di oggi sia fondamentale la competenza non solo nello scegliere i giocatori, ma anche nel costruire un apparato decisionale e un metodo che definiscano la cultura del club e che permettano di essere competitivi in maniera sostenibile. Non c’è niente di meglio che vincere, questo è certo. Però, per la storia del Milan degli ultimi tre anni, lo scudetto diventa quasi una conseguenza: giorno dopo giorno, con idee precise e coerenti, si è ricostruita la competitività di un club per troppo tempo preda dell’improvvisazione. È questo, più che il singolo exploit, a raccontare il ritorno del Milan.

 

 

Che la strada per il Milan stesse cambiando, lo si intuiva anche quando la gestione Pioli sembrava solo un periodo di transizione. Prima del lockdown di marzo 2020 i rossoneri faticavano a vincere con continuità. Si intravedevano già fasi di gioco brillanti, spesso però seguite da battute d’arresto in cui alla squadra sembrava mancare consistenza: il pari contro il Verona di Juric in casa, la sconfitta contro il Genoa di Nicola, in un San Siro deserto per il primo turno a porte chiuse di quella stagione, per non parlare della rimonta subita nel derby, dove il Milan nel primo tempo aveva imposto un pressing raramente ammirato in Italia, poi del tutto vanificato nel secondo tempo. Con l’arrivo del lockdown, nessuno avrebbe auspicato un’estate da miglior squadra della Serie A per i rossoneri. Eppure, già a febbraio c’era la percezione che, a differenza degli altri anni, non tutto sarebbe stato da buttare, sia da un punto di vista calcistico che da un punto di vista economico: nessuno degli acquisti estivi – Theo, Rebic, Bennacer, Leao – si sarebbe deprezzato, né avrebbe portato a una minusvalenza. Nessuno di loro, poi, avrebbe pesato più di tanto sulle casse societarie.

 

L’estate 2020 ha solo certificato la bontà del progetto: Theo miglior terzino del campionato, Bennacer tra i migliori centrocampisti, Rebic con una media gol spaventosa, che purtroppo non avrebbe più ripetuto negli anni successivi. Il solco rispetto al passato ormai era netto, restava da liberarsi di qualche ingaggio oneroso delle gestioni precedenti.

 

L’unico a non rendere al livello degli altri acquisti, fino a quel momento, era Rafael Leao. Non bastavano i lampi da potenziale fuoriclasse. I dubbi sul portoghese hanno infestato la testa di tifosi e stampa fino alla scorsa estate, dopo un Europeo Under 21 giocato con un’abulia inaccettabile. L’impatto di Leao sullo scudetto lo conosciamo tutti. È stato facile, per molti, bollare Leao come nuovo Niang già poche ore dopo il suo acquisto. Colpa del brutto vizio di giudicare le caratteristiche e la mentalità di un giocatore dal colore della pelle, certo, ma anche del ricordo delle operazioni dell’ultimo Galliani. Niang era stato un acquisto disperato, la ricerca di speranza per il futuro in un giovanotto con un paio di gol in Ligue 1: lo scouting non sembrava proprio nelle corde di Galliani, nessuno sperava in un crack destinato a esplodere ai massimi livelli.

 

La diffidenza dei tifosi del Milan era comunque comprensibile. Dietro la scelta della dirigenza, però, c’erano anni di studio, nessuna scommessa al buio: «Leao non l’abbiamo preso soltanto per quello che ha fatto al Lille» – ha detto Geoffrey Moncada, capo dello scouting rossonero, in un podcast francese «lo conoscevamo ancora di più per quello che ha fatto prima allo Sporting Lisbona. Nel settore giovanile era eccezionale. Nella Youth League aveva giocato contro la Juve ad altissimo livello. L’ho visto muoversi da trequartista allo Sporting, incredibile». È per questo che la società ha continuato a credere in Leao anche nei momenti difficili, con la stessa convinzione con cui tiene d’occhio i propri obiettivi di mercato: «Se un giocatore di vent’anni fa una partita pessima e ottiene un quattro in pagella, però ha un grande potenziale, questo per me è più importante. Mi piace quando uno scout la vede così e mi dice: “Guarda, oggi non ha giocato una buona partita, ma è dotato”. Noi continuiamo a seguirlo e a osservarlo ancora», ha detto sempre Moncada, stavolta a The Athletic.

 

Questo modo di operare è unico in Italia, almeno tra le squadre candidate al titolo. È stata la consapevolezza degli errori del passato ad aver spinto verso un nuovo percorso. «Stavamo perdendo soldi soprattutto a causa degli stipendi e dei cartellini dei giocatori, che erano davvero alti e non rispecchiavano il rendimento della squadra», ha detto Gazidis a The Athletic. L’Italia è il paese del calciomercato per eccellenza. Negli anni abbiamo costruito un vocabolario apposito per lessico ed espressioni, i giornalisti italiani sono garanzia di affidabilità anche all’estero. In Italia il calciomercato è uno spettacolo a sé. Gli agenti sono diventati degli showman, seduti nei salotti delle tv con l’aria dei giocatori d’azzardo a Las Vegas, tra abiti eleganti e occhiali dalla montatura bizzarra. Sono spesso loro a tirare le fila del mercato, vista l’abitudine dei direttori sportivi italiani a fidarsi del passato e delle proprie conoscenze. Il Milan, però, non si è omologato: «Non volevo che la nostra ricerca dei giocatori fosse reattiva e guidata dagli agenti. Doveva essere una strategia proattiva», ha detto Gazidis. «Volevo avere il giusto tipo di supporto e di collaborazione per i nostri dirigenti, e questo ha significato costruire un’operazione di scouting di livello mondiale, centrata in particolare sui giovani, visto che sarebbero stati il cuore della nostra strategia. Significava anche avere degli analisti di primo livello».

 

Il nuovo corso ha pagato forse prima di quanto ci si aspettasse. Al Milan c’è integrazione tra gli osservatori e gli analisti. Da quanto raccontano loro stessi, può capitare che uno scout si invaghisca di un giocatore e allora l’area analisti cerchi un riscontro delle sue sensazioni nei numeri. O, al contrario, chi si occupa dei dati nota statistiche particolari per un calciatore e allora l’osservatore valuta ciò che accade in campo. Un flusso reciproco di informazioni, sottoposto al parere dei dirigenti. Una forma più democratica di muoversi sul mercato, dove i poteri sono bilanciati – ed era normale che un decisionista come Leonardo c’entrasse poco con una catena di comando simile.

 

Sostenibilità vuol dire anche non dover dipendere dalle intuizioni di un DS geniale – come potevano essere Sabatini e Monchi nella Roma, i cui addii hanno coinciso con la fine di progetti personalistici – o particolarmente a suo agio nei rapporti con gli agenti. Sostenibilità significa costruire un proprio metodo che sia riproducibile per gli anni a venire, anche con un ricambio di personale: è così che si costruiscono l’identità e la cultura di un club, aspetti all’apparenza intangibili ed evocati spesso con vacuità. È interessante che dietro il mercato del Milan si muovano analisti che qualche appassionato conoscerà come nerd di Twitter, come ha fatto notare Grace Robertson. Ci sono giovani scout come Bob Torvaney, Bobby Gardiner o Tiago Estevao, che difficilmente in Italia sarebbero riusciti a lavorare e a trovare fiducia in un contesto diverso da quello del Milan.

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