Uefa Fpf

 

Quella che sembrava una soluzione vincente si sta rivelando invece un servizio reso solo ai più potenti

 

C’è una generosa dose d’ironia nell’idea che il primo Milan post-berlusconiano sia stato azzoppato in un’aula giudiziaria, dove il Milan berlusconiano aveva visto la luce, e con un’ingombrante retrogusto di quella giustizia politica che, a torto o a ragione, l’ex patron della società ha denunciato per oltre vent’anni: il Diavolo non parteciperà alla prossima Europa League – così hanno decretato le toghe di Nyon – e a nulla è valsa la gagliarda rincorsa orchestrata da Gattuso dopo il suo tardivo approdo a Milanello. Una decisione già scritta, posto che l’Uefa aveva rigettato in due diverse occasioni gli abboccamenti dei dirigenti rossoneri: prima con una proposta di accordo volontario (voluntary agreement), poi con una richiesta di patteggiamento (settlement agreement). Nondimeno, il provvedimento solleva perplessità sull’intero edificio del Financial Fair Play (FFP), il programma di monitoraggio dei conti dei club introdotto dal governo europeo del calcio sotto la presidenza di Michel Platini.


La ratio dichiarata della riforma era lodevole: ricondurre alla continenza contabile le società, avvinte in una spirale di spesa-deficit-debito che minava la sostenibilità economica dell’industria del pallone, e assicurare al contempo l’equilibrio competitivo del sistema. Sotto il primo profilo, invero, è difficile negare che il FFP abbia dato un significativo contributo nella direzione auspicata: tra il 2011 e il 2016, le perdite nette dei club europei di prima divisione si sono ridotte dell’84 per cento – da 1.670 a 269 milioni di euro – con una concomitante riduzione dell’indebitamento netto dal 51 per cento al 35 per cento dei ricavi (dati Uefa). Rispetto al secondo proposito, viceversa, i risultati appaiono fallimentari: il Financial Fair Play dimostra di essere tutt’altro che fair, per ragioni contingenti e strutturali.


All’apparente chiarezza dei suoi principi ispiratori – l’equilibrio tendenziale tra entrate e uscite, con il rifiuto del modello del mecenatismo sportivo, e l’assenza di debiti scaduti verso atleti, altre società e autorità – fa, infatti, da contraltare un elevato margine di discrezionalità nell’applicazione della disciplina ai casi concreti: il tutto a scapito della credibilità del meccanismo, oltre che delle stesse istituzioni che lo amministrano. Società come Manchester City e Paris Saint-Germain, per esempio, hanno ricevuto sanzioni piuttosto blande, grazie alla disponibilità degli organismi di controllo a "chiudere un occhio" su misure che hanno inflazionato i ricavi mediante il ricorso a (laute) sponsorizzazioni con parti correlate.


Al contrario, il Milan sembra essere incappato in un giudizio punitivo, orientato – più che dall’effettivo stato dei conti di via Aldo Rossi – dalla diffidenza verso l’enigmatico azionista di controllo Yonghong Li: diffidenza forse comprensibile, ma certamente estranea ai parametri normativi del FFP, le cui valutazioni dovrebbero restare limitate allo stato di salute finanziaria del club (tanto più in un caso come questo, in cui la continuità aziendale è comunque garantita dal soggetto che ha finanziato l’acquisto dell’imprenditore cinese, il fondo Elliott). Per queste ragioni, se la mancata conclusione del voluntary agreement poteva forse spiegarsi sulla base di proiezioni di crescita eccessivamente ottimistiche, il rifiuto del settlement agreement già evidenziava una severità non giustificata dalla situazione dei rossoneri, che – pur venendo da deficit considerevoli – denotavano un indebitamento gestibile e prospettive di rientro comparabili a quelle che avevano portato, in altri casi, al patteggiamento. L’esclusione dalle coppe ha certificato questa disparità di trattamento.


Ma la vicenda rossonera mette in luce anche un altro e più radicale problema del FFP. Con il mercato vorace dell’estate scorsa, la nuova dirigenza rossonera – confidando, forse ingenuamente, nella possibilità di un accordo volontario – ha scommesso sull’unico percorso di sviluppo ipotizzabile per una squadra che non appartenga – per eredità storica o per immissione tempestiva – all’odierna élite economica del calcio europeo: concentrare in un solo anno contabile la massima parte degli investimenti preventivati, sperando d’innescare risultati sportivi che a propria volta alimentino un sostanzioso aumento degli introiti. Questo schema si è arenato sul campo per un avvio di stagione sconcertante; e, soprattutto, a Nyon per l’opposizione dell’organo di controllo dell’Uefa.


Questo precedente rischia di privare le squadre meno competitive dell’unica strategia in grado di colmare nel medio termine l’intervallo che le separa dalle prime della classe, esacerbando una controindicazione che i critici più avvertiti del FFP illustrano sin dal suo esordio. Il pericolo, insomma, è che l’attuale assetto regolamentare finisca per cementare la supremazia delle squadre più ricche – supremazia che, in un contesto caratterizzato da una robusta correlazione tra capacità di spesa e risultati sportivi, si traduce in una sempre maggiore concentrazione degli allori: basti pensare che la Juventus ha vinto gli ultimi sette campionati italiani, il Bayern Monaco gli ultimi sei campionati tedeschi, il PSG cinque degli ultimi sei campionati francesi, il Real Madrid quattro delle ultime cinque Champions League. È per questo che, se il Milan impugnerà la decisione dell’Uefa innanzi al Tribunale arbitrale dello sport, i suoi tifosi non saranno i soli a sperare che ci sia un giudice a Losanna.

 

 

 

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