storia milan 2

 

Uno sguardo, 2 destini

 

Ci sono due Shevchenko: il primo è il 22enne stakanovista che conquista il Milan, il secondo è un campione smarrito a Londra

 

Andriy Shevchenko arriva a Milano nel giugno 1999. Va a scuola di italiano e non può dire nemmeno chi è, nel senso che il suo trasferimento al Milan non è ufficiale. Il presidente della Dinamo Kiev Surkis e gli amici rossoneri hanno deciso di trovare il momento adatto per l’annuncio. I rossoneri hanno lasciato a Surkis il privilegio di scegliere. Intanto Andriy studia. Vive all’hotel Principe di Savoia protetto a vista dal georgiano Rezo Choconelidze, uomo di fiducia del Milan. Guarda tutto con occhi sbarrati, occhi che qualche giornalista fantasiosa paragona a quelli del cerbiatto Bambi. Ma Sheva non ha nulla di Bambi.

Sheva, figlio di un ufficiale sovietico, se n’è stato sul Mar Nero senza fare una piega come tanti altri ragazzini strappati all’aria tossica di Chernobyl. Sheva è abituato a lavorare ore e ore con Valeri Lobanovski, uno che stroncherebbe pure il più robusto dei muli. Sheva ha spaventato già Barcellona e Real Madrid, è stato capocannoniere di Champions League ed è venuto in Italia a 22 anni per diventare il più grande. Sheva debutta in serie A con gol a Lecce, in un mare di fango. Pensare che gli avevano detto che il sud dell’Italia è la festa del sole. Ma Sheva fronteggia certo e incerto con lo stesso sguardo curioso. Macina gol e metabolizza gli urli di Zaccheroni con naturalezza. «Mi spaccava le orecchie», dirà tanti anni dopo.

Shevchenko diventa inarrestabile, piega i difensori come canne al vento. Al primo anno di Italia vince la classifica dei cannonieri. Non è cosa da tutti. Ma a Sheva le cose normali non piacciono. E il ragazzo della porta accanto che sta sempre ad ascoltare quello che gli dicono, è l’uomo gentile che piace ai bambini, è la leggenda che potrebbe in qualche modo insidiare Nordahl con il suo pazzesco numero di gol segnati con la maglia del Milan, eppure a un certo punto sceglie un’altra vita. Il calcio è così, soprattutto la vita è così. Quando, sette anni dopo il suo arrivo quasi clandestino, Shevchenko decide di lasciare il Milan, c’è gente che piange e gente che bestemmia contro l’ucraino traditore. Lui, come racconta l’amministratore delegato rossonero Adriano Galliani, piange. «Voleva andare al Chelsea, ma allo stesso tempo non voleva. La trattativa l’ha praticamente fatta lui stesso con Abramovich. Io non mi sono mosso da Milano e soprattutto non ho lucrato sul prezzo. Se avessi voluto avrei potuto ricavare molto di più dalla sua cessione. Ma noi non volevamo vendere Sheva. Sheva era un ragazzo di casa, faceva parte della nostra famiglia ed era destinato a diventare una bandiera».

Solo che a un certo punto arriva il cattivo della storia, il tentatore che scombina piani lineari e immutabili. Arriva Roman Abramovich, il miliardario spuntato dal nulla, il giovane ricco che ha comprato il Chelsea per farlo diventare un top club. E russo e si innamora di Shevchenko, simbolo del calcio in tutta l’ex Unione Sovietica. Lo promette a Mourinho e lo corteggia per più di un anno, ma non è facile convincere Andriy. Perché non è facile strappare un ragazzo alla sua storia. Sheva era cresciuto a Milano, aveva portato subito la famiglia, madre, padre e sorella. Suo padre aveva superato un intervento al cuore difficilissimo grazie anche all’interessamento di Silvio Berlusconi, che mette i chirurghi migliori a disposizione di Nikolai. «Il presidente ha salvato mio padre», diceva Andriy.

Difficile staccarsi, per questo e per tutte le cose belle che lo legavano al Milan. I primi giorni da studente nella piccola scuola vicino a piazza Duomo, la prima casa in centro con i Giardini di Palazzo Reale intorno, perché la famiglia soffre la mancanza del verde di Kiev. L’incontro con Armani che lo farà diventare in qualche modo anche imprenditore. La lunga attesa per uno scudetto e nel frattempo la Champions League del 2003, con tutta una vita di calciatore racchiusa in quei pochi secondi, in attesa del fischio dell’arbitro e del rigore da calciare. Gli occhi freddi prima, e poi la gioia che esplode come se avessero forato un barattolo sottovuoto. Old Trafford è la casa di Shevchenko, il suo sguardo calmo e quel rigore infilato dietro allo juventino Buffon un mantra che ammalia i milanisti anche a distanza di anni. Il Milan non vinceva la coppa dal 1994: solo nove anni ma sembravano secoli, colmati dal piede di quell’ucraino gentile.

Nel 2004 Sheva finalmente vince lo scudetto e soprattutto il Pallone d’oro, e la favola sembra destinata a continuare. Poi arriva appunto Abramovich con le sue lusinghe e Shevchenko tentenna, anche perche l’idea di una vita nuova a Londra piacerebbe a chiunque. «Il presidente ha promesso che ci prenderà Shevchenko, e saremo pronti per vincere in Europa», confida l’allenatore Mourinho ai suoi fedeli. Shevchenko è al culmine del successo e sembra che lo vogliano tutti anche al Chelsea. Peccato che poi Andriy, dopo aver trascinato l’Ucraina ai quarti di finale del Mondiale, arrivi a Londra un po’ malconcio ed entri in un tunnel profondo più di certe stazioni della metropolitana.

Sheva scivola ai margini e non si riprende più. Gioca a golf, poi smette pure di fare quello, e tutti a dire che è in piena depressione. «Chi è stanco di Londra, è stanco della vita», diceva Samuel Johnson. Ma non giocava a calcio e non si era mai imbattuto in José Mourinho. Un tipo duro, con un certo ego. Un tipo che prende in giro Shevchenko in mondovisione facendo il gesto dello swing quando un tifoso a Stamford Bridge gli chiede dove sia l’ucraino. Il vento è cambiato. Sheva non è più un re e neppure un principe e il gol nel Community Shield all’esordio a Londra è dimenticato, sepolto sotto piccoli infortuni, malinconie e partite abuliche. A Milano invece se lo ricorderanno per un pezzo, quel gol. Perche Andriy aveva baciato la maglia del Chelsea e questo neppure i suoi tifosi più accaniti e garantisti riescono a mandarlo giù. «Era un omaggio dovuto, non mi sono nemmeno accorto di aver baciato la maglia, volevo soltanto esultare», si difenderà Shevchenko.

Ma il cordone ombelicale con il Milan si è rotto e a Londra c’è un’altra vita da vivere. Sheva non sa nemmeno se gli piaccia. Dopo un po’, comincia a farsi la classica domanda: «What am I doing here?». Mourinho non lo ama più e se ne libererebbe anche in fretta. Perché se n’era andato piangendo in curva in mezzo ai tifosi, e soprattutto perché se n’era andato nonostante tutto: l’affetto della gente, i gol importanti, i soldi, il rapporto preferenziale con Berlusconi che era stato anche padrino al battesimo del primo figlio, Jordan. Se n era andato per una scelta di vita che non aveva convinto nessuno e il pubblico è crudele: dopo l’abbandono, Shevchenko non è più quello dell’Old Trafford, ma quello di Istanbul, della partita maledetta e del gol sbagliato nel finale. Il cerchio si era chiuso, da un rigore all’altro: nel 2003 contro la Juve quello vincente e trasmesso 24 ore su 24 da MilanChannel, nel 2005 contro il
Liverpool quello parato da Dudek, che lo aveva già bloccato in partita letteralmente con le unghie. «Ho rivisto quella parata migliaia di volte, me la sono sognata per mesi», confesserà Shevchenko. Quella parata è il preludio di qualcosa che non va: sta per cominciare una storia diversa, appunto. Prima apparentemente felice, poi calcisticamente dolente.

Eppure fino alla fine il Milan aveva sperato di trattenerlo. L’ultimo anno di Andriy a Milano è una storia di gol e sussurri. Qualcosa non funziona più come prima: il segnale definitivo a Barcellona, nella semifinale di Champions, dove Shevchenko, che tanti anni prima aveva incantato il Camp Nou con la maglia della Dinamo addosso, cerca ancora di portare il Milan in finale, ma il suo gol viene ritenuto irregolare per un fallo in attacco su Puyol. Allo Sheva milanista non ne va più bene una e quando a Parma, alla fine del campionato, si infortuna e sparisce a casa di Berlusconi prima di ricomparire alla cena programmata con Ancelotti e i compagni, le perplessità aumentano: sarà andato a dire che vuole andare, o sarà andato a dichiarare che rimane? Seguono giorni, pochissimi, per ufficializzare una scelta tormentata: Shevchenko annuncia che lascerà il Milan, sostanzialmente per motivi familiari, alla fine del maggio 2006. «Voglio che i miei figli crescano almeno in un Paese dove si parla la lingua della madre, visto che non possono crescere in uno dove si parla la mia». Non gli crede quasi nessuno e chi gli crede pensa che la scelta sia bizzarra.

Sheva parte per Londra con un bagaglio di successi e rimpianti. A Londra non è mai il primattore e pian piano perde anche il ruolo di un buon coprotagonista. Schiacciato dall’intesa perfetta di Drogba con Mourinho e dai problemi fisici causati da metodi di allenamento diversi, Shevchenko scompare. Riemerge ogni tanto segnando un gol, ma conquista le copertine soprattutto con i pettegolezzi sul costo della sua casa e delle sue macchine o con improbabili paragoni con le quantità di vodka, caviale o altri generi preziosi che Abramovich avrebbe potuto comprare con i soldi spesi per ingaggiarlo. I giornali, tabloid ma non solo, non lo hanno preso nel verso giusto. A Stamford Bridge invece i tifosi gli vogliono bene, ma non basta per sentirsi a proprio agio. E a suo agio, Shevchenko non è.

Il caso esplode con tutta la sua forza prima della semifinale di Champions fra Liverpool e Chelsea. La squadra è in ritiro e si prepara alla partita di Anfield, l’ucraino è a casa, non convocato. E’ il primo maggio 2007: Sheva capisce che deve reagire e dire le sue ragioni all’allenatore e al club. È il periodo più buio della sua storia di calciatore. Dopo tanti gol (173) e una consistente teoria di successi (Champions League, coppa Italia, Supercoppa Europea, scudetto, Pallone d’oro) Andriy scopre che il mondo non è un posto semplice. Non che lo ignorasse: in Ucraina negli anni Novanta la vita era facile soltanto per le stelle del football. Ma ci sono stati i problemi di salute del padre, e le delusioni con il Milan nei primi anni, e quelle per la nazionale, con la quale prima del Mondiale 2006 si era fermato due volte ai playoff. Poi il cambio di rotta, grazie soprattutto alla Champions League: nel 2003, dopo la finale europea di Manchester, altra soddisfazione contro il Porto di Mourinho, fulminato nella supercoppa Europea da un colpo di testa dell’ucraino.

Ma il meglio per Sheva doveva ancora venire e si materializza nei gol di Istanbul che consegnano l’Ucraina al Mondiale. Pochi giorni più tardi la chiamata di un’amica che annuncia la visita di France Football per il Pallone d’oro. «Ho dato il tuo indirizzo, potevo?». Un’ora dopo arriva la telefonata di ritorno del giocatore: «Sei sicura di aver capito bene? Non ho ancora sentito nessuno». I ricordi di tanta grandezza tornano sempre più spesso nella mente di Andriy. Sheva vuol tornare a Milano, Berlusconi gli promette che il trasferimento si farà e invita Abramovich a parlarne. Mentre l’Ucraina comincia ad attrezzarsi per l’Europeo del 2012, Sheva comincia ad attrezzarsi per tornare a casa, perché San Siro è in un certo senso la sua casa. L’annuncio, atteso quanto lo era stato quello dell addio, arriva dopo un viaggio fra L’vov, dove ha appena giocato un’amichevole con la sua nazionale, Montecarlo e la Sardegna. Sheva torna, Abramovich si è convinto che non ha più senso trattenerlo.

Ma a Milano il mondo è cambiato e si capisce subito che per lui è già troppo tardi: qualcuno lo accusa di aver lasciato il Milan nel momento peggiore, quando era scoppiata Calciopoli e c’era l’incubo di essere cacciati in serie B, qualcun altro semplicemente obietta che Sheva non è più Sheva. E la storia comincia subito male, con una scena alla «Sliding Doors», film guarda caso girato a Londra: nella prima di campionato, a San Siro contro il Bologna, Sheva si aggrappa a tutte le forze che ha, e nonostante una condizione atletica precaria si butta verso la rete con la fluidità di un tempo. Antonioli è lì come un Dudek e para con l’estrema punta dell’estremo dito del piede. Fosse entrato quel gol, forse la storia sarebbe stata diversa. Ma la porta si chiude. E si chiude anche la possibilità di tornare a essere lo Sheva di prima. Lo Sheva-bis e finito prima di cominciare.

Shevchenko vive una stagione sportivamente amara anche se resta felice, perché Milano è un posto dove si sente bene. Alla fine del campionato il Milan non lo riscatta e Andriy ritorna a Londra. Ma al Chelsea non può e non vuole restare, e allora rimane soltanto un altro approdo naturale: Kiev, la casa vera, la radice, l’inizio della storia. Shevchenko torna alla Dinamo da capitano, la squadra non vince il campionato perché lo Shakhtar è troppo forte, ma Andriy piano piano ritrova se stesso. E nella stagione successiva arriva a Kiev anche Vincenzo Pincolini, il preparatore atletico con il quale Sheva ha lavorato a Milano.

Sheva non può più essere l’attaccante che sradicava i difensori, ma si rimette in pista, gioca per la squadra, fa il centrocampista e anche il terzino quando serve. Se la Dinamo non arriva alla finale di Europa League 2011 è anche perché l’ucraino viene espulso contro il Braga e squalificato per la partita decisiva. Ancora una volta, Sheva rimane a guardare e non può far nulla mentre i compagni perdono una grande possibilità. Ma ormai ha visto tutto, nel calcio ha vissuto tutto e ha imparato a rialzarsi. L’ultima partita lo aspetta in Ucraina, a Euro 2012. Poi Sheva potrà chiudere la carriera a testa alta e non solo perché ha vinto il Pallone d’oro.

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