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Berlusconeide capitolo 10 (I)

 

La cessione di Kakà e l'arrivo di Leonardo (prima parte)

 

Gli strascichi dell’estate 2006, uniti all’inesorabile trascorrere del tempo, avevano segnato una squadra che si stava avviando alla fine di un ciclo, che aveva bisogno di nuovi innesti, di forze fresche e di linfa maggiore per supportare gli eroi stanchi di tante battaglie.
L’Inter "rubò" al Milan Ibrahimovic sotto il naso (con un blitz di metà agosto), ed arrivò così un semisconosciuto come Oliveira per sostituire Shevchenko, il bomber unico e assoluto di quel grande Milan, capace di segnare 25 gol a stagione fuori dal contesto di squadra e capace di togliere spesso le castagne dal fuoco al Milan.

L’inizio di campionato, dopo i primi squilli di tromba con tre vittorie consecutive, iniziò a rivelare le prime crepe e a lasciare i primi evidenti malumori per una squadra incompleta e un po’ scarica, che aveva bisogno di essere rimotivata e rivista.
Quel rombo di centrocampo non reggeva più, la coesistenza tra Inzaghi e Gilardino era molto dubbia, l’infortunio di Serginho aveva tolto al Milan una delle armi più preziose in fase offensiva. Inoltre l’equilibrio generale della squadra era entrato in crisi e la formula con Kakà più due punte era diventata difficilmente sostenibile per una difesa forte sì, ma composta da giocatori tutti sopra i 30 anni.

L’autunno del 2006 coincide quindi con uno dei picchi più bassi della gestione Ancelotti.
Una brutta sconfitta in casa col Palermo, il derby perso, un pari scialbo ad Empoli, la sconfitta beffarda con la Roma a San Siro sono tutti risultati che non soltanto allontanano la squadra rossonera dal vertice della classifica, ma le tolgono anche sicurezza e voglia di fare bel calcio.

Fu così che dopo i primi quattro mesi di campionato, complice una sosta lunga e rigeneratrice, con la squadra in ritiro a Malta, Ancelotti capì che quel Milan doveva mutar pelle per essere ancora competitivo.
La scelta fu di giocare prevalentemente con una sola punta, Inzaghi, Gilardino o anche Ronaldo che sarebbe arrivato a fine gennaio. Venne liberato il talento di Kakà e Seedorf togliendo loro alcune incombenze tattiche di rientro e di sacrificio e venne inserito un uomo in più a centrocampo, Ambrosini, utile per il recupero palla e per proteggere meglio la creatività di Pirlo.
Fu proprio questa innovazione tattica, la famosa fase quattro dell’era Ancelotti, che risulterà determinante nella rincorsa rossonera verso l’utopia.
Si perché Atene per i milanisti, soltanto a gennaio, altro non era se non un’utopia, una magnifica e scintillante illusione che si sentiva il bisogno di alimentare perché il calcio, come la vita in fondo, si nutre di sogni.

Dopo aver passato il turno con il Celtic, soffrendo e rischiando di andar fuori, risolvendo la gara nei supplementari grazie a una perla magnifica di Kakà, il Milan aveva ripreso una buona marcia in campionato verso l’obiettivo quarto posto e aveva pescato il Bayern Monaco ai quarti di Champions.
La partita in casa contro i bavaresi fu ben giocata ma beffarda, con due uscite a vuoto del portiere Dida che resero vani gli sforzi di tutta la squadra.
Il 2-2 in casa significava una quasi certa eliminazione ma fu lì che scattò qualcosa nella testa del gruppo storico, fu lì che divenne decisivo il ruolo di Ancelotti, con il suo equilibrio e la sua saggezza.
Fu proprio lì che vennero intravisti, seppur velati, quei famosi segnali che il destino gentiluomo doveva offrire a questa squadra.
A Monaco di Baviera, Seedorf e Inzaghi regalarono al Milan uno dei successi più belli della sua storia, un successo vero, tosto, di sostanza, sudato fino all’ultimo minuto, una vittoria che catapultò la squadra rossonera di diritto verso la semifinale col Manchester United.
Dopo una partita d’andata spettacolare (con un Kakà in versione extraterrestre autore di due gol e di una prestazione eccezionale) ma amara a causa del gol finale di Rooney che diede al Manchester il successo per 3-2, arrivò il ritorno, il 2 maggio del 2007, in cui il Milan sfoggiò una delle prestazioni migliori della sua storia, la partita perfetta, dove nulla fu sbagliato, dove Cristiano Ronaldo venne disintegrato da Gattuso, dove Seedorf salì in cattedra e Kakà mise l’ipoteca sul suo pallone d’oro.
La vera finale forse fu quella, quello spettacolare Milan-Manchester 3-0, visto che la partita di Atene fu, come tante finali d’altronde, avara di emozioni e molto tirata.

Il Liverpool infatti giocò meglio del Milan, molto nervoso e teso in campo, ma rispetto a Instanbul c’era un fattore nuovo, il fattore Inzaghi, quella variabile impazzita che manda in tilt il radar delle difese, che “sa segnare” persino di omero, che sa sempre che ogni attimo è quello buono per mettere la palla nel sacco.
Inzaghi fu la chiave indovinata per scardinare la difesa inglese, una scelta felice, preceduta il giorno prima da una telefonata beneaugurante e premonitrice fatta proprio a Inzaghi da Silvio Berlusconi in persona.
Nell’esultanza di Inzaghi dopo il gol del momentaneo 2-0 sul Liverpool, c’è tutta quella incredibile stagione, c’è la rabbia di un gruppo mai domo e la gioia di una tifoseria che ha voglia di riconoscersi in questa squadra. Campioni d’Europa!
Un successo che assume le sembianze della pioggia manzoniana, che lava via tutte le ingiustizie dell’estate del 2006, che allontana le invidie e ripaga il Milan di quella sfortunata e beffarda finale di Instanbul. Carlo Ancelotti ha quasi chiuso il cerchio della sua storia rossonera.
Gli rimane solo il Mondiale per club, titolo sfuggitogli nel 2003, che invece stavolta, con l’ennesima partita perfetta, riuscirà a portare a casa il 1 6 dicembre del 2007, con un perentorio 4-2 ai danni del Boca Juniors.
Un’altra rivincita.
Nel mezzo un’altra Supercoppa Europea conquistata ai danni del Siviglia.

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