I dilemmi di Buffon e gli esempi di Baresi e Maldini
Se un giocatore diventa più importante della squadra che rappresenta, per la società nasce un problema
Quando si parla di giocatori simbolo, di bandiere di un club, il rischio che si corre prima o poi è quello di vedere queste icone diventare, per il pubblico, ancor più importanti della squadra che rappresentano. E' un punto di non ritorno quasi automatico dal quale diventa facile passare. Il passo d'addio è infatti sempre molto complicato per i giocatori simbolo. A fine carriera non è semplice capire quando è il momento di fermarsi. C'è la tentazione dell'anno in più, del titolo da raggiungere, del record di presenze, di quella partita che prima o poi sei convinto di rigiocare. E così, piano piano che la carta d'identità inizia a diventare un limite, il grande campione si autoconvince di poter andare oltre la stessa. Prova a pensare che la decisione sul suo futuro dopo il campo può attendere e che il talento, da solo, può anche bastare ad affrontare una stagione. Gianluigi Buffon è in mezzo a questa complessa ed intricata architettura di pensieri. Li vive, li pesa e li soppesa, ne esamina gli aspetti meno conosciuti. Sa che è arrivato il momento di dire basta, ma pensa che pochi eletti debbano avere il privilegio di scegliere loro quando smettere. Ed in fondo sa, sente dentro di sè, che lui quel privilegio se lo è guadagnato sul campo. Non è il primo e non sarà l'ultimo. Prima di lui c'è stato Francesco Totti, prim'ancora, seppur con modi e tonalità diverse, Alessandro Del Piero. La generazione social degli ultimi anni vive molto delle umoralità. Le mastica e le ripropone a circuito continuo fino a crearne dei veri e propri tormentoni.
Nel 1997 però i social non esistevano. Non c'era nemmeno la rete, o meglio c'era, ma era terreno sconosciuto per molti. Non fu un anno casuale. Fu l'anno in cui smise Franco Baresi. La decisione non fu sua. Fu della società e di Fabio Capello che tornava in quell'estate a guidare il Milan. Il nostro capitano non disse mai nulla però. Nessuna parola fuori posto, nessun accenno polemico. Accettò tutto con compostezza e stile. Paolo Maldini invece, nel 2009, ebbe un approccio diverso. Decise da solo, con sofferenza. Ma non tornò mai indietro. Nemmeno quando alla vigilia di Milan Roma, la sua ultima partita a San Siro, la società gli chiese di fare un altro anno. Sapeva di aver dato davvero tutto, di essere arrivato alla fine di una carriera strepitosa. E forse capiva che avrebbe potuto essere un elemento decisamente di divisione, dato che non sarebbe stato un titolare indiscusso ed il nome Maldini, in panchina, fa sempre polemica.
Vent'anni dopo Baresi e quasi dieci anni dopo Maldini, in un universo sportivo e mediatico completamente diverso, per Buffon non è e non sarà la stessa cosa. Può smettere o continuare, ma in ogni caso sta già ponendo la questione in maniera pubblica, con interviste mirate. Sa che può dividere perchè per i suoi tifosi non sarà mai uno come tanti. Sente in maniera profonda il peso del suo nome che sovrasta quello del suo club. Difficile dire oggi cosa farà a giugno, ma è probabile che la sua società sarà costretta ad accontentarlo per non entrare nei meandri di una scelta troppo forte da gestire pubblicamente. Sarà la vittoria di un calcio decisamente diverso.