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Il Trofeo fantasma

 

Mitropa Cup, ecco la storia del trofeo più nascosto della grande bacheca rossonera

 

Nella sede della gloriosa società rossonera, in mezzo a Coppe dei Campioni, Intercontinentali, Scudetti e Supercoppe varie, c’è un titolo ignorato dai vertici societari e da molti tifosi milanisti: la “Coppa dell’Europa Centrale”, conquistata quattro giorni prima della seconda retrocessione in B del diavolo rossonero. La Mitropa Cup era la più antica competizione calcistica europea per squadre di club, elaborazione della Challenge Cup, un torneo di calcio tra squadre dell’impero Austro-Ungarico. L’ideatore fu l’austriaco Hugo Meisl, nel luglio del 1927. Metteva di fronte le migliori squadre del calcio mitteleuropeo e negli anni ’30 acquisì un prestigio che nei decenni a seguire fu raggiunto prima dalla Coppa Latina e dopo dalla Coppa dei Campioni.

Dalla stagione 1979-‘80 si decise di ammettere alla Coppa Mitropa le squadre vincitrici dei campionati di seconda divisione di Jugoslavia, Italia, Ungheria, Cecoslovacchia e Austria. Il primo posto nel campionato di B 80/81, pertanto, consentì al Milan di disputare l’edizione 81/82 della Mitropa.
Gli avversari dei rossoneri furono i cecoslovacchi del Vitkovice, gli ungheresi dell’Haladas e gli jugoslavi dell’Osjiek. (la squadra austriaca avente diritto diede forfait). Girone all’italiana, con gare di andata e ritorno. L’allenatore rossonero Gigi Radice decise di sfruttare la vetrina internazionale per dare spazio a qualche giovane emergente e poco utilizzato in campionato.

La principale rivale dei rossoneri, per la vittoria finale, fu il Vitkovice Ostrava. Il cammino rossonero partì all’insegna della sfortuna: nella gara d’esordio, proprio contro i cecoslovacchi, il Milan fu battuto da un rigore al 90’, dopo essere passato in vantaggio con Antonelli. Le successive quattro partite portarono tre vittorie e un pareggio. Si arrivò così al match di ritorno contro il Vitkovice, a San Siro, decisivo per l’assegnazione della coppa e con il Milan costretto a vincere. La stagione, nel frattempo, aveva preso una piega devastante, con i rossoneri in piena zona retrocessione e ad un passo dal baratro della B.

Il tecnico cecoslovacco Dunaj, all’arrivo a Milano, chiese ai dirigenti milanisti le foto di Gianni Rivera.
In Cecoslovacchia il calcio italiano veniva ancora identificato con il golden boy, ormai da tre anni ex calciatore. “Abbiamo promesso ai nostri tifosi tante fotografie, da noi Milan vuol dire Rivera”, disse lallenatore della squadra di Ostrava. Il 12 maggio 1982, davanti a diecimila tifosi, i fedelissimi presenti San Siro quella sera, il Milan ritrovò di colpo il coraggio di lottare.

L’allenatore Galbiati, che aveva sostituito Radice, esonerato quattro mesi prima, in vista della sfida-salvezza di Cesena, escluse dall’undici titolare Antonelli e Battistini mentre un infortunio bloccò Collovati.
Fu questo lo schieramento iniziale rossonero contro il Vitkovice: Piotti, Icardi, Maldera, Venturi, Tassotti, Baresi, Cambiaghi, Novellino, Jordan, Moro, Evani.
Il centravanti scozzese Jordan, da settimane accantonato in campionato, sfoderò quella sera la sua migliore prestazione stagionale, lottando come un leone in ogni pallone.

La partita si mise subito bene per il Milan: dopo dodici minuti, per un fallo in area su Maldera, Baresi trasformò il rigore del vantaggio con un tiro forte e centrale che spiazzò il portiere Zapalta.
Sull’altro versante, Piotti fu chiamato in causa solo in una circostanza, su conclusione dell’ex nazionale cecoslovacco Gajdusek, il miglior giocatore del Vitkovice. In avvio di ripresa, il raddoppio del giovanissimo Alberto Cambiaghi (bolide da fuori area), chiuse l’incontro.
«Mister Galbiati – ha affermato di recente Cambiaghi, 45 anni rievocando la conquista della Mitropa Cup – decise di farmi esordire a San Siro in prima squadra quella sera. Giocare in quello stadio e riuscire a fare gol, fu meraviglioso. In quel periodo, oltretutto, avevo subito diversi e gravi infortuni ad un ginocchio. Ringrazio ancora oggi Galbiati che mi ha cresciuto come calciatore, conducendomi sulla strada del professionismo».

Al 77’ l’arbitro concesse un secondo penalty al Milan. Baresi si avviò lentamente verso l’area avversaria. Aveva già sistemato il pallone sul dischetto quando, dagli spalti, i tifosi invocarono il nome di Jordan. Squalo Joe, incoraggiato dallo stesso Baresi, non si tirò indietro, siglando il 3-0. Abituato sin da bambino ad una vita “non facile”, quella di un villaggio di minatori del Lanarkshire (Scozia) privo persino di un ospedale, Jordan ebbe grosse difficoltà di ambientamento a Milano, restando avulso dai metodi e dagli schemi di Radice. In campionato il suo score si era fermato all’unico gol realizzato a San Siro contro il Como fanalino di coda. Impensabile per un bomber che aveva segnato gol a grappoli con qualsiasi maglia, dal Leeds al Manchester United.

La terza rete chiuse il match. Nel momento più drammatico della storia milanista, i rossoneri alzarono al cielo una coppa europea, nove anni dopo la Coppa delle Coppe conquistata a Salonicco, anche allora prima di un’altra disfatta storica: la sconfitta di Verona (maggio ’73) che impedì al Milan di fregiarsi della Stella.
Il netto 3-0 rifilato al Vitkovice aggiunse un altro tassello, piccolo ma significativo, nel già ricco albo d’oro milanista. Nella festosa invasione di campo, sventolarono i drappi rossoneri mentre i tifosi gridarono “Resteremo in serie A”. Una scena quasi surreale.

Per una sera, gli incubi del campionato, contrassegnato dalla devastante mediocrità della squadra rossonera, vennero accantonati. I cecoslovacchi, delusi per la sconfitta, fecero ritorno a casa in pullman: un’odissea, da Milano ad Ostrava, 28 ore complessive di viaggio, con colazione e pranzo a sacco. Quattro giorni dopo, i supporters milanisti trascorsero la loro domenica calcisticamente più triste, conclusasi con il Milan ricacciato nuovamente nel purgatorio della serie cadetta.

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