storie calcio

 

Il dottor Fulvio qualunquista

Erano tempi di Vecchi Fusti, quelli...

 

A modo mio qualunquista lo sono stato anche io. Chi me lo disse in faccia, un giorno, fu Gianni Brera. Ero appena arrivato al Guerino, a Milano, da Bologna, e il direttor Giovanni aveva il dente avvelenato con i bolognesi per via dello scudetto “rubato” all’Inter nello spareggio dell’Olimpico.Già, il direttore Brera: in verità, l’unica volta che lo chiamai così mi mandò a quel paese, spiegandomi che lui era un uomo libero e che i direttori sono schiavi del padrone più di quanto non lo siano i modesti redattori, e lui col Conte Rognoni di Romagna – che chiamava il Passator del Mese alla stregua del mitico dottor Pelloni del Carlino – faceva quel che voleva, imponendosi come anarchico di lusso, e il Conte abbozzava. Felice.

Dunque arrivai a Piazza Duca d’Aosta e la prima volta che aprii bocca in redazione per parlar di calcio, decantando le virtù dei rossoblù e del loro tecnico, Fulvio Bernardini, che ne schierava quattro e mezzo là davanti a fabbricare gol (Perani, Bulgarelli, Nielsen, Haller e Pascutti, Giacomino lavorava per tutti) Giovanni disse alzando il sopracciglio: «L’è ‘rivà un qualunquista». Rimasi interdetto. Lì per lì pensai che mi avesse “scoperto” politicamente e invece Willy Molco mi dette di gomito e sussurrò «non hai mai letto le sue polemiche sul qualunquismo tattico?».
Sì, ne avevo letto, m’ero ricordato subito delle tirate breriane contro la Scuola Napoletana di Palumbo e Ghirelli e il loro qualunquismo, consistente – la faccio breve – nell’invocare squadre attrezzate per offendere e pedatori votati all’attacco; e mi sentii anche in colpa, perchè da quel punto di vista un po qualunquista ero anch’io, odiatore del calcio iperdifensivo dell’Inter herreriana.

Ma qualunquista ero stato davvero, pur nelle condizioni cinquettiane di uno che “non ha l’età”. Ero stato qualunquista quando nell’immediato dopoguerra, salutato da emozionanti scritte sui muri romani tipo “aridateci er puzzone” – ovvero il Duce – m’ero impegnato a leggere L’Uomo Qualunque – alternandolo a Gimo Toro e Dick Fulmine – perché m’era piaciuto quel disegno di testata con l’uomo schiacciato nella pressa che gridava il suo dolore, un dolore più politico che fisico. Eppoi, mi era piaciuto Guglielmo Giannini, elegantissimo con la sua caramella all’occhio e brillante nel linguaggio, spesso addirittura esagerato – come si diceva allora – capace di sparare epiteti sanguinosi sui politici cialtroni e indirizzarne anche di più violenti allo Stato inetto. Grillo è roba da ridere a confronto. Visti anche i tempi, è ovvio. Allora, qualunquisti voleva dir fascisti. Non a caso nel decoroso salottino di casa mia si sarebbe letto, più avanti, il Candido di Guareschi; non a caso, il primo giornale su cui potei scrivere davvero (pagato, insomma) fu Lo Specchio di Giorgio Nelson Page (e Ninni Pingitore).

Ma il mio forse superficiale qualunquismo avrebbe avuto un approfondimento straordinario proprio a causa di quell’uomo che Brera – pur rispettandolo e gratificandolo del soprannome di Dottor Pedata – tacciava di obbrobri tattici solo in casi disperati corretti in senso difensivo (un giorno vi parlerò di Capra, il terzino fattosi ala): Fulvio Bernardini.
Non so come fu, forse all’ora del the da Pedretti, a Casalecchio, quando il Dottore mi permetteva escursioni dialettiche non calcistiche, mi venne da dire “qualunquismo”.
«E tu che ne sai» – mi chiese. Glielo spiegai: avevo già venticinque anni e quelle passioni politiche erano state ordinatamente archiviate. «E di Giannini, che mi dici?». «Mi piaceva». «Anche a me», disse Fulvio. Poi restò zitto, incerto se continuare, ma poi s’aprì: «Ho sposato sua figlia. Sì, Ines è figlia di Guglielmo Giannini. Un uomo che ho rispettato. Aveva una grande intelligenza e una profonda voglia di pulizia».

Mi capitò, con Fulvio, di conoscere l’Uomo di Destra che piaceva a me, come più tardi fu con Enzo Ferrari. Non politicanti, per carità, ma portatori di idee e comportamenti degni di quella Patria che mi aveva insegnato ad amare mio padre e di quella Borghesia che avevo scoperto negli scritti di Leo Longanesi. E Fulvio – come Ferrari – trovò l’interlocutore giusto per raccontare una storia sul Duce. L’Ingegnere di Maranello fu divertentissimo nel descrivere una folle corsa in automobile verso l’Abetone con il cavalier Mussolini che forse per la prima volta ebbe paura.
La storia di Bernardini risaliva agli anni Trenta, quando era popolarissimo calciatore, ricco, giovane, bello, tentato da Cinecittà.

Il 2 gennaio 1935 girava per Roma con la sua elegante Augusta quando, a Piazza Venezia, si trovò dietro una ingombrante Astura blu che andava a dicei all’ora.Cominciò a suonare il clacson, ma inutilmente, poi in via Cesare Battisti tentò il sorpasso e l’Astura l’ostacolò fino a che le due auto si toccarono. Nulla di grave. Passarono alcune ore, poi ricevette a casa la visita della polizia: sull’Astura viaggiava Benito Mussolini che andava a Stazione Termini per incontrare il premier francese Pierre Laval. Gli fu ritirata la patente che riebbe grazie ai buoni uffici di un altro campione, Eraldo Monzeglio, amico dei figli del Duce; ma a un patto: essendo abilissimo anche nel tennis, avrebbe dovuto giocare una partita con Mussolini, a Villa Torlonia.
«E sai come finì? – mi disse il Dottore, stringendo le spalle e abbozzando un sorriso – Dovetti perdere». Ecco chi era il mio Maestro di Qualunquismo.

Che tuttavia negli anni Sessanta, durante un “Processo al Calcio” organizzato da Guerin Sportivo, meritò un’altra ammirata sferzata da Brera: «Bernardini fingeva di parteggiare, a parole, per i qualunquisti e poi li smentiva sul campo sia a Firenze sia a Bologna. La cosa mi sdegnava molto. Perché gli italiani hanno sempre bisogno del doppio binario e storicamente ne ho così nitida coscienza da soffrirne. Intanto, per quel vezzo, abbiamo perduto molti anni in chiacchiere e ancor oggi vi sono molti tabù mentali e critici

 

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