storie calcio

 

Il filosofo senza filtro

 

Manlio Scopigno

 

Con la sua aria da grande dissacratore, la sua passione per il whisky e il viscerale anticonformismo, Scopigno ha attraversato il calcio italiano come un visitatore alieno, combat­tendone con nonchalance i luoghi comuni più efferati. E riuscendo a passare alla storia per aver abbattuto quello più resistente, cioè la supremazia dei grandi club metropolitani – Juventus, Inter e Milan – nel più lontano avamposto della provincia del pallone, la Sardegna.

Lo chiamavano “il filosofo” e nessuno ricordava più l’origine di quel nomignolo: perché gli bastava farsi scivolare addosso un’intervista per passare per un cerebrale dissacratore, un cultore amabile del paradosso. Ne aveva per tutti, sibilando sentenze col suo filo di voce, lasciandola filtrare come il filo di fumo della sua immancabile sigaretta. Ma al di là delle battute, c’era la so­stanza di un allenatore capace di precorrere i tempi. Si vantava di aver fatto la rivoluzione abolendo i ritiri e responsabilizzando i giocatori. A Cagliari, per vincere, spostò gli allenamenti al pomeriggio e assecondò il clima riducendo la fatica infrasettimanale al minimo indispensabile. E aveva dialogo coi giocatori, con quel filo di voce che poteva diventare tagliente cazziatone ma il più delle volte si compiaceva di fare strage degli errori con una semplice battuta. Ebbe Riva, e vinse.

Quando non lo ebbe più, per via della gamba immolata alla Nazionale, smise di vincere, ma il suo Cagliari per anni fece paura alle grandi, perché era squadra nel vero senso del termine, costruita attorno a concetti moderni, ancorché mai strombazzati per via di quel carattere alieno dalla facile pubblicità. I giocatori universali, un suo pallino ante litteram, insomma, prima che l’Olanda anni Settanta contagiasse tutti. E le punte in movimento, i tourbillon avanzati, il centravanti fallito Nené scoperto sensazionale creatore di gioco.

Filosofo, in qualche modo, era stato davvero, sia pure in sedicesimo. Manlio Scopigno era friulano, di Paularo in provincia di Udine, ed era nato calciatore, in un’epoca che non garantiva certezze di sorta. Così giocava e studiava, appunto filosofia. Aveva cominciato nel Rieti, dove viveva la famiglia, Serie C e poi B. Dopo tre stagioni era passato alla Salernitana tra i cadetti e infine al Napoli, il gran salto in A, a ventitré anni. Fino a un brutto pomeriggio del campionato 1951-52, Napoli-Como, un 7-1 che fece epoca. In quella partita Scopigno segnò la penultima rete del Napoli, poi un movimento falso gli costò un terribile incidente a un ginocchio. La diagnosi, per l’epoca, era quasi senza speranza: rottura dei legamenti. Due anni di viavai tra il campo di allenamento e la clinica, poi la decisione di lasciare il calcio.

Così la ricordava lui, con l’aria disincantata della maturità: “Io non ero quel che si dice una tempra di combattente. L’incidente mi capitò a 26 anni, nel pieno della carriera, e siccome la parte vitale per un calciatore sono le gambe, il mio morale affondò nel vicino Golfo. Ero distrutto, tant’è che non frequentai più neppure la facoltà. Ero iscritto a Filosofia, all’Università di Roma, fin dai tempi in cui giocavo nel Rieti. Andai alla deriva. Niente calcio e niente studi per due lunghi anni. Con il calcio ben presto fui stufo di lottare. Tra l’altro, già da sani costituisce un sacrificio affrontare le rinunce quotidiane. Se uno è onesto, deve dimenticare di avere un suo cervello, condizionando tutto al volere della società e dell’allenatore. Figuriamoci se appena appena uno non è fisicamente a posto. Ed io, con quel maledetto incidente, ero irrimediabilmente finito. A quel punto mi posi questa alternativa: mi laureo o faccio l’allenatore? Alla laurea pensavo come all’ultima risorsa, perché uno quando perde il ritmo dello studio è difficile pos­sa riacquisirlo. A meno che non rinunci a tutto il resto. Dopo due anni di alti e bassi la mia gamba era guarita. Tornai a Rieti e mi accordai con i dirigenti della società locale per fare l’allenatore-giocatore“.

Pochi anni di tirocinio, poi, a Vicenza, la grande occasione. Come tecnico in seconda prese lezioni da Lerici, uno specialista della provincia e quando nel gennaio 1962 lo stesso Lerici volò via a cavalcioni di un siluro. Scopigno si giocò alla grande la carta della salvezza. Assicurò ai biancorossi quattro stagioni di vita tranquilla, con la sua apparente pigrizia e la vista lunga dalla panchina («Molte partite del Vicenza le ha vinte lui con intuizioni geniali» ricordava Sergio Campana, giocatore alle sue dipendenze).

A Bologna ebbe meno fortuna, per il maledetto vizio di ignorare le convenienze sociali e la diplomazia e soprattutto certe amicizie politiche della dirigenza. Una notte, un fattorino del presidente Goldoni gli recapitò un biglietto di licenziamento. Lui lesse e, senza muovere un sopracciglio, sussurrò il suo commento: «Ci sono due errori di intassi e un congiuntivo sbagliato». Qualche anno dopo, al cronista che gli chiedeva se sarebbe tornato a Bologna, rispondeva: «Sì, con un aereo da bombardamento». Di lì a poco, lo chiamava il Cagliari, per il prologo della grande avventura. Già, il prologo, perché il romanzo ebbe una trama singolare.

Dunque, anno di grazia 1966, Scopigno arriva a Cagliari, dove ci sono il giovane Riva e una Serie A conquistata da appena due anni da difendere con le unghie e coi denti. Macché semplice salvezza, il nuovo arrivato studia l’ambiente, studia Riva, ne asseconda la riottosità agli allenamenti mattutini (il grande Gigi dormiva come un ghiro prima dell’ora di pranzo) e costruisce una super squadra. Sposta Riva centravanti puro, accentrandone i compiti, e porta la squadra a insidiare le grandi. Purtroppo, il grande Gigi immola una prima gamba alla patria, contro il Portogallo, e il Cagliari chiude al sesto posto.

Ci sono malumori in seno alla società, qualche dirigente mandato cordialmente a quel paese se l’è legata al dito e aspetta solo il momento. Che arriva in giugno, il Cagliari negli Stati Uniti in tournée, qualche screzio per i premi partita e un ricevimento dal console italiano a Chicago. Scopigno beve un whisky di troppo e quando chiede del bagno, gli indicano scherzosamente un cespuglio in giardino: detto e fatto, il tecnico viene immortalato mentre fa pipì en plen air. La cosa fa un discreto rumore e quando torna in patria, Manlio Scopigno riceve il Seminatore d’oro come miglior allenatore di A e dal Cagliari la lettera di licenziamento.

Non resta proprio disoccupato, però. Il presidente dell’Inter, Angelo Moratti lo prega di restare a disposizione per via di certe bizze di Herrera e gli passa un regolare stipendio per tutta la stagione. In­fine, da Cagliari, dopo averne avvertito forte la mancanza soprattutto quanto a punti in classifica, lo richiamano. Torna tra i suoi ra­gazzi in rossoblu e riannoda immediatamente il filo del successo. Conquista un clamoroso secondo posto e poi lo scudetto nel 1970, con la squadra di Albertosi e Nené, Crearti e Riva. E Niccolai, lo stopper celebre per le autoreti, su cui poche settimane dopo, nel corso dei Mondiali in Messico, se ne uscirà con una delle sue battute classiche: «Tutto mi sarei aspettato dalla vita, tranne vedere Niccolai in mondovisione!».

L’impresa è di quelle epiche. Mette in fila gli squadroni grazie a una squadra mobile, compatta, sempre fresca nonostante il clima. E vince lo scudetto da… dietro una recinzione. Proprio così.
Il 24 di­cembre 1969 il giudice sportivo lo squalifica per cinque mesi per aver rivolto alcuni apprezzamenti particolarmente icastici a un guardalinee nella partita col Palermo di nove giorni prima. Un bel rega­lo di Natale. Scopigno parla di un banale malinteso, ma il Cagliari non ha santi in paradiso e la squalifica viene scontata per intero. Persino la festa della promozione, il 12 aprile, se la gusta in mezzo al pubblico e non dalla panchina.

Purtroppo, un nuovo infortunio di Riva gli toglierà un secondo scudetto e la possibilità di giocarsi fino in fondo la chance in Coppa dei Campioni. Quando se ne va da Cagliari, il meglio della carriera se ne è andato e lui non è tipo da inseguire gli ingaggi. Lo chiama la Roma per la stagione 1973/74, ma l’avventura si conclude ben presto: quattro sconfitte, interrotte solo dalla vittoria contro il Verona, e appena quattro punti nelle prime sei giornate. Anzalone lo esonera, lui come al solito nonfa una piega. La breve avventura romanista è da ricordare fu il primo a fare fiducia al diciottenne Agostino di Bartolomei che fece esordire contro il Bologna.
Infine torna a Vicenza: non evita la retrocessione e nella seconda sta­gione una strana malattia lo costringe a letto per alcuni mesi. Quando ritorna, è bruciato. Nessuno lo chiama più. Scriverà commenti intrisi di veleno e malinconia, fino al settembre del ’93, quando il secondo infarto nel giro di poche settimane se lo porterà via, nell’ospedale di Rieti, la cittadina di famiglia.

 

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