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Quelle canne che mi hanno rovinato la vita

 

Guidavo a 170 l'ora contro i Tir per mandarli fuoristrada con immensa calma e lucidità

Sono stato un ragazzo orfano con un nonno educatore che si regolava solo con le cose «difficili», cioè con i doveri senza diritti.
E con una madre che insegnava a lavare e stirare fino ad ammassare farina e uova per tirare su la pasta.
Io, scrittore e giornalista, fin da ragazzo ne ho combinate di belle.

La scintilla della ribellione non era frutto di esempi ideologici, ma l'accelerazione stessa che quel repubblicanesimo mazziniano mi dava. Spingevo verso l'esistenza, puntavo la libertà. Ho incominciato a lavorare a nove anni nel bar di famiglia e poi a dieci a via Volturno a Roma; ho guidato automobili truccate e sono diventato gemmologo; poi scrittore, giornalista, saggista, insegnante. Nel 1974, praticamente ragazzino, anno di fondazione di questo giornale, ho incontrato le cosiddette droghe leggere. Anche se disprezzo, per motivi complessi, la parola «generazione» l'ho comunque attraversata con l'impegno e la testa rivolta ad altro. Sono stato addirittura tra i primi a «fumare». Ai Castelli Romani, dove sono nato e abitavo, eravamo in trenta a farsi hashish e marijuana. Anzi, con i miei due o tre amici notturni preferivamo il pakistano e l'afgano perché erano i più tosti. Quelli che ti facevano sballare di brutto. La marijuana, l'erba insomma, non l'ho mai potuta soffrire. Ti rincoglioniva. Ridevi da ebete. Invece l'hashish ti sconvolgeva per bene. A volte avevo vere visioni, si acceleravano i pensieri, le immagini. Guidavo a 170 l'ora contro i Tir per mandarli fuoristrada con immensa calma e lucidità. Furono tre anni senza regole emotive; anzi, l'emotività debordava dentro e fuori di me. Era un mare nel quale nuotavo. O che mi affogava rubandomi alla realtà. Poi sono arrivati gli attacchi di panico che i medici in ospedale non sapevano neppure cosa fossero. Poi sono arrivati i collassi neurovegetativi e in ospedale mi dicevano che la pressione era okay, che ero sano come un pesce. Invece no. L'hashish era ed è mischiato con le anfetamine, con la metredina. Allora poteva capitarci uno schizzino di Lsd. Ecco perché era «roba buona». Dopo quegli anni, a partire con esattezza dal 17 febbraio del 1977, l'eroina invase le strade. Tanti amici e ex compagni di scuola che ormai vedevo di rado, incominciarono a bucarsi e a morire. È inutile che mi dilunghi. È storia raccontata mille volte. Dimenticata e di nuovo narrata. Ma è meglio ricordarla di tanto in tanto.

Le droghe leggere fanno male. Tanto male. Aumentano le ipocondrie, lavorano sulle fragilità dei ragazzi, gli spezzano la sintassi della crescita. Si pensa a depenalizzarle invece di educare alla costruzione di un progetto. Alla bontà di fare l'amore (lo disse perfino Ratzinger), alla bellezza di costruire con fatica e con le proprie mani il destino. Con l'ambizione e l'orgoglio di fare da soli. Di fare «cose difficili, perché quelle facili non valgono niente», mi pungolano ancora le parole di mio nonno Aurelio. No, invece demagogia, facilità, l'ipocrisia di far credere di avere conquistato un diritto sacrosanto. Tutta una ridicola stronzata speculare alla virtualità, alla distruzione sistematica dell'impegno.

Quando più giovane insegnavo, ai ragazzi gli urlavo: «Foscolo, il ribelle Foscolo deve essere il grido di battaglia!». Gli adolescenti è urgente invitarli in «villeggiature educative»: dove si legge, si fanno tuffi al mare, si canta e si stirano camicie e si preparano minestre. Niente longa manus dello Stato; magari scuola diversamente intesa. La mia non è una stupida ricetta provocatoria. Serve coraggio e generosità per raccontare che le cosiddette droghe leggere sono merda. Il dolce sta da un'altra parte. Ma per coglierlo occorre un po' di sudore. Vale la pena, però. Cari, adorati tredicenni, quindicenni... non credete a quei rimbambiti che a settant'anni vanno ancora a cercare una canna. E scusatemi se si tratta di un amico di famiglia.

 

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